Nel dicembre del 1631 si verificò una grande eruzione subpliniana del Vesuvio, seconda per potenza distruttiva soltanto a quella pliniana del 79 d.C. Ancora una volta fu il fuoco del Vesuvio a cambiare la storia delle terre di Valle, che fu poi chiamata Valle di Pompei, dopo l’inizio degli Scavi, voluto nel 1748 da Don Carlos di Borbone, Re a Napoli ma futuro Carlo III di Spagna.
Circa un decennio prima erano cominciati gli Scavi di Ercolano – a partire dal pozzo del Principe d’Elboeuf, che però pur dando risultati eccezionali costringevano gli addetti a lavorare scavando a viva forza cunicoli e gallerie, pericolosi per gli addetti ai lavori e anche per i non rari visitatori e antiquari, come allora erano definiti “ante litteram” gli archeologi e gli antichisti in generale.
Nel caso del territorio di Valle si trattava invece di un sito “fertile” per i ritrovamenti di Antichità che emergevano dal sottosuolo con facilità, scavando senza pericoli su un leggero rilevato collinare – non a caso chiamato Civita – ubicato accanto ad un’altra collinetta detta Giuliana. Entrambe le collinette erano confinanti con la Fossa di Valle, antichissimo cratere vulcanico della catena del Somma antico, al cui interno nei millenni si era generato il Vesuvio: ‘a muntagna, per tutti gli abitanti dei paesi vesuviani che si stendevano ai suoi piedi, occupandone le ultime balze pedemontane.
Eppure quel rilevato era ben noto ancora nella prima metà del Millecinquecento. Pietro Lettieri, Tabulario della Corte Vicereale napoletana – insomma valente Topografo di Corte – impegnato per incarico del Viceré di Napoli nella ricerca di acquedotti romani da riattare per portare in qualche modo acqua potabile a Napoli. La Capitale del Regno, cresciuta a dismisura durante la Dinastia Aragonese e contesa dopo la sua fine per alcuni frenetici anni tra Francesi e Spagnoli, fu alla fine conquistata da questi ultimi mentre si avviava ad essere, insieme a Londra e Parigi, una delle capitali del Mondo.
Fu proprio Pietro Lettieri quindi a scrivere alla Corte napoletana che si doveva “recare presso la “…città di Pompei, che era in quello alto che stà in fronte la Torre della Nonciata et in detto locho ne appareno più vestigii”. Diretto il riferimento a Pompei e inequivocabile anche quello dedicato a “quello alto”, cioè l’altura della collinetta della Civita, dove si verificavano ritrovamenti.” (cfr. “Pompei. I Misteri del Tempio di Iside. Le radici liquide della Terza Pompei”, Flavius Edizioni 2020 Pompei, Aut. F.L.I. Federico).
Il lettore attento si starà chiedendo come mai il Re Don Carlos, dopo un paio di secoli non sapesse che “quello alto” rilevato collinare era parte della Pompei antica distrutta dal Vesuvio. Ebbene, era stata proprio l’eruzione vesuviana del 1631 a “cancellare” definitivamente Pompei e la sua memoria, “fisica” oltre che storica.
Ma ripercorriamo gli eventi del 1631: il Vesuvio dopo lunghi giorni di scosse, via via più violente, si risveglia con una eruzione immane. Il Vulcano al primo scoppio ingoia il proprio stesso cono, alto centinaia di metri. Poi, con una deflagrazione spaventosa, erutta milioni di metri cubi di cenere e lapillo. Segue un fiume di fango caldissimo che in poche ore spazza via una parte di Torre del Greco, spingendo anche la linea di costa in avanti di circa cinquecento metri. Gli storici raccontano che in alcuni punti il mare arretra addirittura di un chilometro.
L’eruzione arriva a depositare sulla Civita e sulla Giuliana – le due collinette di Valle al confine con Boscoreale – circa un paio di metri di cenere mista a lapillo. Questo paio di metri di ricoprimento si aggiunge ai molti metri del ricoprimento già eruttato nel 79 d.C.
Così viene sepolto – stavolta davvero definitivamente – il territorio dell’antica città romana di Pompeii, il cui ricordo era sopravvissuto comunque nella memoria collettiva per circa quindici secoli.
Insomma – dal 1631 e per oltre un secolo, fino alla metà del 1700 – dell’antica Pompei non si parlò quasi più. La certezza della definitiva scomparsa “fisica” e “storica” di Pompeii ce la fornisce un epitaffio vicereale marmoreo del 1635. Tale epitaffio monumentale, alto una ventina di metri, esiste ancora oggi sulla via “Nazionale” a Torre del Greco ed è chiamato ‘o ptàffio da tutti.
La lapide marmorea comunica che Pompei, Ercolano e Ottaviano sono definitivamente scomparsi sotto gli strati eruttivi del dicembre 1631. Il testo inciso recita così: “… fatta a pezzi violentemente la cima del monte, eruppe da un’immensa bocca il giorno dopo, proiettando oltre l’Ellesponto la cenere, trascinandosi dietro, per completare la tragedia, il mare, un mare crudele, acque sulfuree, bitume infiammato, massi ricchi di allume, informi rottami di metalli di ogni specie, fuoco misto a vortici di acque, e tra il fumo ondeggiante cenere bollente e se stessa e un funesto miscuglio scaricando dalla cresta del monte. Pompei, Ercolano, Ottaviano, dopo aver circondato Resina e Portici, boschi, ville e case in un attimo stese al suolo, brució, distrusse…”
Il nostro lettore attento si domanda però: è universalmente noto e condiviso che l’eruzione pliniana del 79 d.C. distrusse Pompei ed Ercolano (Ottaviano è in gran parte la odierna Somma Vesuviana). Cosa c’entra quindi il 1631? Noi gli rispondiamo: C’entra e come!
L’anno 1631 è la data della definitiva scomparsa “fisica” della Pompeii romana, seguita dalla sua scomparsa “storica” dalla memoria collettiva.
Pompei però rinasce prepotentemente poco più di un secolo dopo, per poi imporsi nel mondo.
D’altra parte, la cronaca vicereale, che viene scolpita sul marmo nel 1635 “… mentre ancora fuma e si indigna il Vesuvio”, come recita espressamente il testo nel finale, non avrebbe mai potuto proporre un falso così clamoroso.
Possiamo dunque concludere, senza tema di smentite, che l’anno 1631 è il vero spartiacque del fluire della storia della antica Pompeii e di quella della nuova Pompei, di oggi. Quest’ultima, infatti, parte dagli Scavi iniziati a metà del 1700, ma affonda le proprie radici nella Pumpàia osca dei secoli, sei o sette, che precedettero la conquista romana dell’80 d.C., coprendo così quasi tremila anni di storia, interrotta e ripresa più volte.