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Crisi-Ucraina: origini e implicazioni energetiche

by Francesca Carotenuto
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Negli ultimi giorni il contrasto ai confini dell’Ucraina si è intensificato, innescando la più grande crisi di sicurezza in Europa dalla Guerra Fredda. Nell’ottobre 2021 la Russia ha iniziato a trasferire truppe ed equipaggiamento militare alle frontiere con l’Ucraina, raggiungendo un totale di 100.000 soldati. Per gli Stati Uniti la situazione è chiara: Mosca si prepara ad un’invasione su larga scala, sebbene il Cremlino abbia più volte negato ogni intenzione di voler passare all’attacco.

Le conseguenze sono visibili anche sull’economia di nazioni apparentemente non coinvolte. Si consideri l’aumento del prezzo del gas naturale e di altre materie prime, ragion per cui la diplomazia mondiale si è mobilitata per scongiurare la crisi. Notevole l’attivismo della Francia, presidente di turno del Consiglio dell’Unione Europea, per rimettere gli europei in gioco dopo essere stati emarginati dagli incontri tra Usa e Russia a Ginevra, che hanno discusso di una crisi in Europa senza coinvolgere i diretti interessati.

Il Cremlino continua a giustificare il riorientamento verso il confine occidentale come una mossa difensiva, volta a garantire la giusta distanza di sicurezza da quello che il presidente Vladimir Putin definisce un “accerchiamento”. Negli ultimi anni la NATO ha infatti esteso il suo supporto militare all’Ucraina, minacciando il suo ruolo da stato-cuscinetto a protezione di Mosca.

Ma l’ossessione di Putin per l’Ucraina ha radici molto più profonde, legate ad antiche ambizioni imperiali e alla convinzione che russi e ucraini siano parte di una “sola unità”. Nel suo saggio intitolato “Sull’unità storica dei russi e degli ucraini”, il presidente russo sostiene che i due popoli traggano il loro lignaggio dal Rus di Kiev, un’entità monarchica medievale degli Slavi orientali che si estendeva sull’attuale territorio dell’Ucraina e della Russia, avvalorando un’interpretazione parziale di ciò che è stato il reale processo di costruzione della loro identità etnica. Fino all’indipendenza del 1991, l’Ucraina è stata poi pietra angolare dell’URSS, rivestendo un ruolo fondamentale come granaio e arsenale dell’Unione. Per lungo tempo la Russia ha sperato di attirare il Paese nel suo mercato unico, l’Unione economica eurasiatica, mentre Kiev cercava di allinearsi più strettamente con le istituzioni occidentali, UE e NATO.

È stata questa tendenza a portare al culmine le tensioni, iniziate già con la Rivoluzione arancione del 2004 che, congiuntamente alla Rivoluzione delle Rose in Georgia e la Rivoluzione dei Tulipani in Kirghizistan, è stata percepita dal Cremlino come un tentativo degli USA di interferire nei processi di democratizzazione e di incalzare l’ancoraggio all’Occidente. Il timore di perdere definitivamente la sua influenza sull’Ucraina è stato poi confermato dalle proteste di Kiev nel novembre 2013, note come Euromaidan, contro la decisione del presidente ucraino Viktor Yanukovich di rifiutare un accordo per una maggiore integrazione economica con l’UE. Putin ha inquadrato il tumulto come un “colpo di stato fascista” che ha messo in pericolo la maggioranza etnica russa in Crimea, ed ha ordinato un’invasione segreta della penisola, approfittando per consolidare il suo controllo su un punto d’appoggio critico sul Mar Nero. La stessa narrativa è stata utilizzata per giustificare il sostegno militare offerto ai separatisti del Donbass.

Putin ha più volte dichiarato che non permetterà mai all’Ucraina di diventare antirussa e, nonostante l’accordo di pace firmato a Minsk nel 2015, promuovere l’instabilità politica continua ad essere il mezzo utilizzato dal Cremlino per influenzare la politica internazionale di Kiev e mantenerla nella sua sfera di influenza.

Alle questioni politiche si affiancano poi gli interessi economici. La Russia esporta il 67% del suo gas in Europa e per anni ha fatto affidamento sull’Ucraina come intermediario energetico per raggiungere i clienti dell’Europa centrale e orientale, pagando tasse di transito da milioni di dollari a Kiev. Se la Russia deciderà di invadere l’Ucraina, sarà soggetta a drastiche sanzioni economiche, come lo sfratto dal sistema Swift, il congelamento dei beni esteri degli oligarchi vicini al potere o l’arresto del progetto Nord Stream 2, il gasdotto che corre sotto il Mar Baltico fino alla Germania destinato a diventare il nuovo rubinetto d’Europa. Quest’ultima possibilità non è stata ben accolta da Putin, che ha incalzato il suo alleato Aleksandr Lukashenko, presidente della Bielorussia, a spostare sui confini polacchi migliaia di migranti provenienti dal Medio Oriente, tentando di destabilizzare l’Europa.

Mosca sta giocando la sua partita utilizzando il proprio gas come strumento di negoziazione ed ha aumentato vertiginosamente i prezzi delle forniture. La crisi ha violentemente ricordato all’Europa la sua dipendenza dalla Russia per l’approvvigionamento energetico, avviando una ricerca esasperata di soluzioni alternative, che risultano però essere irrealizzabili: altri interlocutori come la Norvegia, l’Algeria o l’Azerbaijan rimangono su quote di esportazione limitate e l’eventuale sostituzione con il GNL, il gas liquefatto, proveniente dagli USA, prevede la presenza di un’opportuna strumentazione per rigassificarlo e renderlo fruibile sul mercato, di cui attualmente l’Europa non dispone.

Nel frattempo, i colloqui tra Capi di Stato si susseguono nel tentativo di cercare una strada diplomatica per evitare l’escalation. Il presidente russo nel suo incontro con Emmanuel Macron si è detto disponibile a continuare il dialogo, mentre la recentissima telefonata tenuta con Joe Biden non ha portato ad alcuna svolta significativa. Mentre incombono i timori per una nuova guerra, oltre dieci paesi, tra cui l’Italia, hanno invitato il proprio personale diplomatico e il resto dei connazionali a lasciare l’Ucraina.