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Cultural studies e babele coloniale

by Redazione
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Quanto conta la cultura alternativa nel mondo di oggi, che si nutre di pensiero unico? Cerchiamo di capirlo intervistando la professoressa Marina De Chiara, autrice del recente “La Babele coloniale” per l’editore Ad est dell’Equatore. De Chiara è professore Associato di Letteratura Inglese Moderna e Contemporanea  all’Università “L’Orientale” di Napoli. Interrogarsi poi sull’identità culturale è un argomento che, sotto le più varie forme, riguarda ciclicamente anche Napoli e ogni territorio di confine. I pensatori di riferimento per De Chiara sono Predrag Matvejevich, Cvetan Todorov e Derek Walcott, per una strana coincidenza tutti scomparsi l’anno scorso, che per trenta anni sono stati le colonne del pensiero critico contemporaneo, ponendo con insistenza la spinosa questione dell’’altro’

 

 

Prof.ssa De Chiara, cosa sono i Cultural studies?

I Cultural Studies, nati in Inghilterra a fine anni Cinquanta, inaugurano una nuova prospettiva critica sul concetto di cultura, mostrando come nella definizione di questa idea entrino in gioco tensioni sottili e nascoste, quello che Gramsci chiamava il rapporto tra ‘egemone’ e ‘subalterno’. La lezione più dirompente di Gramsci è stata appunto questa intuizione, su cui hanno in seguito insistito i Cultural Studies britannici, i Subaltern Studies e i Postcolonial Studies.

Ridefinire una identità è una operazione che comporta quali rischi?

Nella ridefinizione di un’identità si rischia di dover abbandonare solide certezze che si sono ‘sedimentate’ in secoli e secoli di ideologie e costumi. Questa possibilità di una perdita irreparabile provoca spesso sgomento e paura dinanzi alla novità e all’apertura verso altre prospettive. Spesso, poi, si pensa che ridefinire un’identità equivalga a perderla del tutto, ma non è questo certamente quello che accade. Piuttosto, si tratta di rivedere i presupposti ideologici, i concetti fissi, irremovibili, definiti una volta per tutte, per aprirsi invece agli interrogativi posti dal ‘nuovo’, dall’inaspettato, dall’imprevisto. Questo incontro tra posizioni è spesso lacerante, ma può anche essere fonte di grande arricchimento e rigenerazione.

Gli studi postcoloniali che futuro hanno?

Gli studi postcoloniali hanno ribaltato il modo di scrivere la Storia, provando a capovolgerne la prospettiva, riscrivendo i ‘fatti’ a partire dai ‘margini’, ossia dalle ‘periferie’ della narrazione storica. Una prospettiva che tenesse conto, per dirla ancora una volta con Gramsci, delle dinamiche che si creano tra poteri egemoni e subalterni. Rivolgendo l’attenzione al lascito dell’esperienza coloniale, ossia al tipo di scenario sociale e culturale che si è venuto a creare nei paesi che sono stati colonizzati, ma anche nei paesi che sono stati ex-colonizzatori, gli studi postcoloniali avranno un futuro, e un fiorente presente, finché ci sarà la necessità di riflettere su come ristabilire un ordine più equo nel mondo, un ordine, cioè, che non riproponga ancora oggi i vecchi rapporti di forza tra colonizzatore e colonizzato. Ancora oggi, tra quello che genericamente denominiamo ‘Occidente’ e il cosiddetto ‘resto del mondo’ è in atto un tipo di relazione imperialistica, sia economicamente che culturalmente, che proviene direttamente dall’assetto coloniale del mondo cinquecentesco: da quella grande avventura di ‘scoperta’ che è stata simbolicamente l’impresa di Cristoforo Colombo è nata, infatti, contemporaneamente, la grande avventura coloniale europea nel Nuovo Mondo. Quel momento ha segnato l’inizio della nostra modernità come modernità coloniale.

Perché nel suo libro parla di traduzione?

La questione centrale del libro è la traduzione intesa come traduzione culturale: il tentativo è quello di far emergere cosa significa radursi, ossia ‘traslarsi’, trasportarsi, da una cultura all’altra, per esempio quando improvvisamente un territorio diventa la propria terra adottiva, ma si proviene da altre realtà culturali e linguistiche. E’ una questione molto complessa, che cerco di dipanare anche con l’aiuto della Torre di Babele, mito biblico su cui si è soffermato uno dei massimi teorici del pensiero postcoloniale, Homi Bhabha, rifacendosi a sua volta a Derrida, grande filosofo della modernità.

Napoli ha una forte quanto contraddittoria identità. Non pensa che la filosofia degli studi postcoloniali possa avere come oggetto di studio anche la nostra città?

E’ una riflessione molto appropriata. Napoli ha una complessa storia culturale di stratificazioni linguistiche ed etniche molto variegate, che continuano oggi ad accogliere ancora altre sfumature per l’arrivo costante di nuovi accenti e costumi, data la sua particolare collocazione geografica, come città di arrivo e transito portuale. Per la sua peculiarità geografica, ma anche per la sua specifica qualità di cultura che ‘accoglie’, Napoli è un vero e proprio ‘laboratorio’ per riflettere sulle nuove dinamiche culturali che si stanno generando nel Mediterraneo. Anzi, direi che una particolare declinazione degli studi postcoloniali è proprio quella degli studi sul Mediterraneo, un campo d’indagine molto fertile soprattutto in questo ultimo decennio (uno tra i più autorevoli studiosi di Cultural Studies, Iain Chambers, che insegna da molti anni all’Orientale, ha dedicato i suoi ultimi lavori proprio al Mediterraneo).