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Dal lavoro sperimentale dell’Arpac sui siti di Posidonia una possibile best practice

by Flavio Cioffi
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Si chiama “Piano Attività Posidonia oceanica”. E’ il Piano dell’Arpac, approvato lo scorso 3 dicembre, “per lo studio finalizzato alla classificazione dei tratti di costa del territorio regionale interessati dal fenomeno di sedimentazione organica e accumulo di Posidonia oceanica e relativi sistemi di monitoraggio in continuo”. Fuor di burocratese, di cosa si tratta e perché è un progetto così importante? Lo abbiamo chiesto a Lucio De Maio, dirigente dell’Unità Operativa Mare dell’Arpac, responsabile del progetto.

Quando si parla di Posidonia, la gente normalmente pensa a distese di erba secca che occupa le spiagge e impedisce di utilizzarle. Invece?

La Posidonia oceanica è una pianta tipica del Mediterraneo. E’ dotata di radici, di fusto, di frutti che sono simili alle olive ed è ancorata al fondo. Come tutte le piante, per sopravvivere ha bisogno della luce. Quindi, se per qualunque motivo si determina un abbassamento della trasparenza delle acque, la pianta va in sofferenza e regredisce. Se, per esempio, in una zona di ottima qualità troviamo la Posidonia ad una profondità di 35/40 metri, man mano che diminuisce la trasparenza dell’acqua la troveremo in fondali sempre meno profondi. Fino a scomparire.

Ma perché è così importante per l’ambiente?

Perché è come una foresta marina dove esiste una grande biodiversità, un habitat utilizzato da tanti animali per la riproduzione e per viverci. Inoltre, produce grandissime quantità di ossigeno. Come tutte le piante, nel periodo autunnale invernale perde le foglie. Le foglie vecchie si staccano, soprattutto in seguito alle mareggiate, e si allontanano dalla costa fino ad una certa distanza, dove affondano e marciscono. Una parte, invece, va a depositarsi a terra.

E questa parte a terra perché non può essere semplicemente rimossa?

Perché produce degli ammassi intrecciati, chiamati con un termine francese banquette, che costituiscono un’ottima opera di difesa costiera. Inoltre, nel momento in cui viene rimossa, inevitabilmente viene rimosso anche il sedimento, la sabbia attaccata alle foglie. Quindi perdiamo territorio perché la linea di costa arretra, mettendo anche a rischio le opere costiere.

 

 

Cosa prevede il Piano dell’Arpac?

Innanzitutto, l’individuazione dei tratti di costa a rischio di erosione e la loro caratterizzazione anche dal punto di vista dell’utilizzo antropico. Se l’accumulo di Posidonia insiste su una costa rocciosa, non adibita alla balneazione, la cosa migliore è lasciarlo dove si trova. Invece, per i tratti di costa di interesse economico, dobbiamo in prima analisi capire dove gli accumuli possono essere rimossi e dove no in quanto la costa è già a rischio di erosione.

Chi decide se rimuoverli?

Noi prospettiamo le soluzioni ottimali, la decisione spetta alle amministrazioni locali. La cosa migliore è sempre non rimuovere, ma sono libere di decidere.

Torniamo al Piano.

Prima di parlare di spiagge soggette ad accumulo di Posidonie, dobbiamo localizzare in mare le praterie. Esistono diverse attività di monitoraggio basate su normative specifiche, la cosiddetta “strategia marina” e il monitoraggio delle acque marino costiere. In entrambi i programmi di monitoraggio è previsto lo studio delle praterie di Posidonie proprio per l’importanza dell’habitat. Quindi realizzeremo una mappatura in ambiente GIS delle praterie che già conosciamo, completandola negli anni con i dati relativi all’intera regione Campania. L’ultima mappatura, fatta dal Ministero, risale ad oltre vent’anni fa e abbiamo verificato che da allora sono scomparse varie praterie. Bisogna fare il punto della situazione attuale.

Ma non è questo l’unico obiettivo.

No, ce n’è un altro molto ambizioso: individuare i cosiddetti siti di macerazione. Come detto prima, secondo il ciclo naturale le foglie cadono, sedimentano in mare, marciscono e così vanno ad arricchire l’ambiente attraverso la biodegradazione di nuovi elementi nutritivi che supportano la crescita delle piante. Una parte invece va a terra. Individuando i siti di macerazione in mare, la Posidonia eventualmente rimossa dalla costa può essere affondata in questi siti rimettendo tutto in circolo. Ricorrere alla discarica è sempre una sconfitta. E’ un obiettivo molto ambizioso perché nel Mediterraneo non è mai stato fatto un lavoro del genere ed è un’operazione molto difficile.

Per la quale vi avvarrete della collaborazione del CoNISMa, il Consorzio Nazionale Interuniversitario per le Scienze del Mare.

Si, principalmente dell’università Parthenope, nella persona del professore Giovanni Russo. Una collaborazione utilissima per due motivi. Il primo, avere il supporto di un profondo conoscitore sia dell’ambiente marino della Campania che di tutti gli aspetti che riguardano la biologia marina. Il secondo, l’attività operativa deve partire subito e, da sola, l’Arpac avrebbe tempi più lunghi per mancanza di sufficienti risorse umane.

Come opererà l’Agenzia?

Uno staff si occuperà dell’elaborazione dei dati su sistemi informatici territoriali, rappresentandoli su cartografia a vari livelli. Saranno inoltre impiegati un biologo marino, che già lavora sul monitoraggio delle acque marino costiere, e un chimico che si occupa della direttiva strategica marina. Quindi il personale operativo in mare che, attraverso l’impiego di un sonar a scansione laterale, si occuperà del rilievo. Eseguirà delle ecografie del fondo che copriranno una fascia di 200 metri, 100 a dx e 100 a sx della rotta della barca, e attraverso queste strisciate dovremmo trovare i siti. Dico dovremmo perché è un progetto pilota. Una volta individuate le zone, vi andremo con una telecamera filoguidata, il ROV, che praticamente è un drone sottomarino. Poiché sott’acqua il GPS non funziona, utilizzeremo il nostro sistema di bordo che attraverso l’emissione di un segnale acustico individua la posizione del ROV. A questo punto potremo verificare visivamente se quello che è stato rilevato con il sonar è effettivamente un sito di macerazione.

Un lavoro sperimentale, quindi, che in caso di successo può essere replicato in tutto il Mediterraneo.

Assolutamente si. Può diventare una linea guida, una best practice. In letteratura non c’è niente di simile sull’argomento. Questi siti, andando sott’acqua con le bombole, vengono individuati solo a basse profondità, 10 o 15 metri. Si tratta di siti temporanei che le mareggiate sono in grado di spostare. Invece a profondità maggiori, 50 o 60 metri, le foglie non vengono più spostate e vanno in degradazione naturale.

Se funziona, l’Arpac si mette una medaglia al collo.

Ma grande, perciò dico che è un progetto ambizioso. Trovare i siti di macerazione sarebbe veramente un grande risultato, una svolta.