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Elezioni. Tutto scorre, tranne De Luca

by Luigi Gravagnuolo
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Prima di tutto, prima del voto, prima del Covid, prima di tutto, ai primordi della storia, gli uomini si unirono in società strutturate per sentirsi più sicuri. Insieme e protetti da un capobranco si sarebbero difesi meglio dalle avversità e dai pericoli. Furono ben disposti a limitare la propria libertà in cambio della vita. La libertà è stata una conquista successiva, fondata sulla stabilità della sicurezza e del benessere.

Facciamo un salto vertiginoso di migliaia di anni e veniamo ai giorni nostri. Il Covid, tutto il pianeta è stato investito dalla pandemia, le vite sono state minacciate, l’umanità impaurita ha di nuovo avvertito con forza il bisogno di essere protetta. Alcuni politici di governo, che non l’hanno capito o che hanno sottovalutato la paura, la stanno pagando caramente.

Il primo è stato Donald Trump. Aveva la rielezione in tasca, poi la sua sgangherata gestione della pandemia ne ha segnato la fine. Quindi, come in un domino, tessera dopo tessera, stanno cadendo tutti i suoi vassalli nel mondo, in particolare in Occidente.

Ma il Covid non ha prodotto solo cambiamenti nella psicologia di massa. Ha avuto anche conseguenze strutturali, la più vistosa delle quali è stato il cambiamento radicale del ruolo dell’UE, da cerbera esattrice fiscale a erogatrice di miliardi di euro. Nel nostro Paese, con il governo Draghi, ne sono già tangibili i benefici economico-sociali: la crescita del pil e dell’occupazione e la prospettiva di ulteriore benessere grazie al PNRR.

Gli Italiani nella tornata amministrativa di inizio ottobre sono stati chiamati a scegliere tra chi ha garantito finora la gestione della sicurezza dalla minaccia pandemica e può garantire benessere e chi da due anni non fa che sbraitare e cercare cavilli per dirsi contrario al governo, finanche ammiccando ai no-vax e no-green pass. Non c’è stata partita.

Ma ci si può presentare di questi tempi agli elettori al grido di libertà di contagio per tutti e Draghi tiranno, peraltro litigando tre volte al giorno con i propri alleati?

La caporetto della destra italiana sta tutta qui. Peggio di tutti ne è uscito Salvini il cui giochino del piede in due scarpe lo ha fatto inciampare per le scale. La Meloni, pur nel contesto di una sconfitta generale della propria coalizione, se l’è cavicchiata riducendo i danni, lucrando sull’essersi proposta come unico riferimento coerente dei populisti superstiti. Per lo meno ha tenuto il piede in una sola scarpa. Ma quanto potrà durare?

Tra pochi giorni in Italia si cominceranno a spendere cento milioni di euro al giorno e a gestire la spesa sarà chi sta al governo. Sicuri che imprenditori, sindacati, intellettuali, disoccupati, ceti medi guarderanno al partito della protesta invece che a quello del portafogli?

Intanto i primi passi della leader dopo la conta dei voti non sembrano geniali. Con questi risultati la sua prima uscita è stata l’offerta al PD del voto per Draghi al Quirinale in cambio delle elezioni politiche in primavera. Un curioso tentativo di eutanasia politica.

Domenica e lunedì scorsi si è tuttavia pur sempre votato per i sindaci, salvo che in Calabria dove si sono svolte le elezioni per il Consiglio Regionale e nei due collegi dove ci sono state le suppletive parlamentari. Nelle città, in gran parte di esse, hanno quindi inciso – e molto – anche altre componenti, le scelte dei candidati, le liste, i tempi delle decisioni e i temi su cui ci si è battuti. Al 90% su tutti i fronti la destra ha toppato.

Per limitarmi solo – e a titolo esemplificativo – ai contenuti della campagna e al solo Comune di Salerno. Questa città da un trentennio sceglie in libere elezioni di essere guidata da Vincenzo De Luca e dal suo gruppo dirigente. Lo fa perché nella percezione dei suoi cittadini grazie a lui è passata dall’essere vissuta come una città stracciona del Sud ad una delle più brillanti realtà urbane d’Europa. Ebbene, contro il candidato di De Luca, il mite sindaco uscente Vincenzo Napoli, una pletora di oppositori, neanche capaci di trovare tra sé un minimo d’intesa, si è affannata a chiedere un voto di… libertà. Bah! Non solo, per colmo del grottesco, tutti a decantare le lodi dello squallore delle chiancarelle di una volta e a buttare fango sul Crescent e piazza della Libertà. Volete che un salernitano di buon senso avesse potuto fidarsi di chi prometteva di liberarlo da De Luca per tornare alle chiancarelle?

De Luca è poi un caso a sé. In Europa e forse nell’Occidente democratico. Nel tempo della società liquida, in cui niente si tiene più oltre lo spazio di un mattino ed istituzioni, millenarie e non, come la famiglia, la Chiesa, i partiti, i sindacati, i corpi dello Stato si dividono e si squagliano, De Luca sta, immobile, coriaceo. Trent’anni di consensi crescenti e di un gruppo dirigente coeso che lo segue con rigore e disciplina. Sarà studiato a lungo.

Chiudo con l’astensionismo. Le sue proporzioni sono tornate quelle del pre Casaleggio e Grillo. Eppure si è trattato del voto per i sindaci delle città, tradizionalmente il più coinvolgente e partecipato. Le molle dell’astensione sono due, la disaffezione per la politica e un disorientamento temporaneo, proprio di chi si è disincantato rispetto alla sua parte politica ma non ha ancora la convinzione per passare dall’altro lato. Disaffezione e disorientamento hanno inciso per tutti, il secondo però ha riguardato soprattutto la destra e il M5S.

Dopo la sosta nella stazione dell’astensione, quando ripartirà il treno, dove si dirigeranno i voti della destra e del M5S?