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Il dialogo interculturale evolutivo

by Mariano Avagliano
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Lo scorso 23 aprile, una agente di polizia di Rambouillet, vicino Parigi, è stata uccisa da un estremista di religione islamica. Questo fatto è come benzina sul fuoco su di un confronto già rovente: da un lato lo Stato francese, da sempre paladino della laicità, dall’altro la comunità musulmana, gelosa delle proprie origini e tradizioni.

Questo avvenimento, unito a tanti altri, rende evidente un problema che la crisi del covid-19 ha soltanto messo da parte, se non addirittura aggravato. Da numerosi anni, la società europea è oggetto di profonde trasformazioni. Anzitutto, la globalizzazione, come rilevato da Zygmunt Baumann, ha inciso profondamente sul tessuto sociale rendendolo “liquido” e friabile.  I flussi migratori, poi, provenienti dall’Africa, dal Medio Oriente, e da contesti instabili, hanno reso inevitabile il confronto con tradizioni culturali e religiose differenti (tra cui quella musulmana) che non sempre corrispondono con il sistema di valori con cui siamo cresciuti.

La pandemia ha soltanto distolto l’attenzione da una problematica che si infiamma ogniqualvolta l’una o l’altra parte si sentono minacciate. Quando questo accade, lo schema di pensiero che si afferma è quello dello “scontro di civiltà”, ipotizzato nel 1993 dal politologo americano Samuel P. Huntington. Secondo tale teoria, le nuove fonti di conflitto tra gli stati, nell’ordine mondiale post-guerra fredda, sono rappresentate dalle identità culturali e religiose. Se da un lato, la fine della Guerra Fredda segna il definitivo trionfo dei valori liberali e della democrazia per l’affermazione di un ordine globale armonico (“fine della storia” secondo Francis Fukuyama), dall’altro Huntington esprime una lettura opposta affermando che la fine dei blocchi contrapposti segna l’inizio di scontri e contrapposizioni basati su nuove linee di confine (“linee di faglia”) che si formano su antiche divisioni ideologiche, religiose e culturali.

Con questo approccio riusciamo a spiegare l’emergere delle conflittualità che, dalla fine della guerra fredda, hanno marcato l’ordine globale. Ma, per una maggiore comprensione, tale approccio va rapportato all’instabilità che, probabilmente, ha contribuito ad alimentare. La teoria “lo scontro di civiltà” ha rappresentato, soprattutto negli anni 2000, una delle basi del pensiero neoconservatore in politica estera. L’idea che una civiltà, l’Occidente, debba prima o poi scontrarsi con le altre (tra cui ad esempio quella musulmana) è stata alla base della guerra al terrorismo mossa da parte dei Paesi occidentali, guidati dagli Stati Uniti di George W. Bush, per sradicare Al Qaeda, “diffondere la democrazia” e reagire decisamente dopo i mostruosi attentati dell’11 settembre 2001. Afganistan, Iraq e, più recentemente, Libia e Siria sono i contesti di conflittualità che si sono originati anche a seguito dell’affermazione di questo approccio.

A distanza di venti anni e scevri da approcci ideologici, attraverso l’osservazione delle conseguenze di queste conflittualità, sembra che l’approccio dello “scontro di civiltà” non si sia rivelato efficace e utile nell’interpretazione della realtà in cui intervenire. Gli effetti di tale erronea interpretazione ci spingono a tre considerazioni.

Innanzitutto, sebbene l’idea dello scontro faccia parte dell’immaginario umano (l’uomo è quello che è anche, purtroppo, in funzione di un Nemico, immaginario o reale che sia), tuttavia lo “scontro di civiltà” sembra esser un approccio per lo più riconducibile all’Occidente. Soprattutto nella fase della colonizzazione, pochissimi altri contesti come quello rappresentato dall’Occidente, hanno avuto una spinta così forte, assimilabile al misticismo, nel “civilizzare” e trasformare le diverse culture e civiltà del mondo conosciuto. Molte volte questo è avvenuto, principalmente, manu militari. Non significa dare delle colpe ma semplicemente riconoscere una parte non trascurabile degli avvenimenti storici.

In secondo luogo, l’ipotesi dello “scontro di civiltà” sembra non assegnare un peso determinante al fatto che le culture e le civiltà, in sé, non hanno pensiero e fine perché sono frutto di un processo inintenzionale, costante e inarrestabile di evoluzione. Una cultura o una civiltà non dichiara guerra a un’altra, sono le realtà statali, guidate da intenzioni razionali e umane, a farlo.

In terzo luogo, lo “scontro di civiltà” sembra non dare una considerazione rilevante al fatto storico che le culture e le civiltà non sono elementi chiusi ma sono frutto di un processo di continua contaminazione e trasformazione grazie a differenti influenze provenienti dallo scambio con le altre culture e civiltà.

Come rilevato da Franco Ferrarotti in “La convivenza delle culture”, i paesi affacciati sul Mar Mediterraneo, grazie a numerosissimi contatti e reciproche influenze, presentano elementi culturali simili, in maniera tale da poter considerare l’esistenza di una “co-tradizione culturale”. Il nostro Paese, ad esempio, è frutto dell’influenza del mondo greco ma al contempo della razionalità romana, così come delle influenze tedesche e normanne ma anche arabe e musulmane. Quello che siamo, quindi, non è fermo e immutabile ma è invece un processo di continua trasformazione e contaminazione tra molteplici culture e tradizioni.

Si rende quindi evidente che le nostre società hanno bisogno di uno schema di lettura, e soprattutto di comprensione, ben differente della realtà globale. Occorre focalizzare che le culture e le civiltà, tra cui quella dove noi siamo, hanno pari rilevanza e sono il frutto inintenzionale del dialogo e di reciproche influenze. Sembra quindi evidente la necessità di un approccio evolutivo al dialogo interculturale, uno schema capace di leggere e comprendere l’evoluzione della realtà, adattandosi alle molteplici trasformazioni a cui le culture e civiltà sono sottoposte.

La crisi pandemica del Covid-19 ha dimostrato che la soluzione non è lo scontro ma la collaborazione. Abbiamo bisogno di cercare e costruire le ragioni della collaborazione, perché da soli non abbiamo le capacità, le conoscenze e la forza per risolvere le tante sfide che abbiamo di fronte.