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Il Salone del libro e “le cose che bruciano”

by Giulio Espero
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Domenica si è conclusa la seconda edizione di NapoliCittàLibro – Salone del libro e dell’editoria – che si è tenuta dal 4 al 7 aprile nella splendida e suggestiva cornice di Castel Sant’Elmo.

Dopo il buon successo dell’anno scorso nel complesso monumentale di San Domenico Maggiore, quest’anno la kermesse si è spostata in collina, tra gli ambulacri tufacei della fortezza medievale che domina San Martino, dove le sale sono state simbolicamente rinominate Levante, Ponente e Libeccio, in base al loro orientamento ed in omaggio allo spirito marittimo della città di Napoli.

In rappresentanza di 160 sigle editoriali da tutta Italia, sono stati presenti 115 espositori e si sono svolti oltre cento appuntamenti in programma.

Il tema scelto dagli organizzatori per l’anno 2019 è stato: Approdi. La cultura è un porto sicuro. Un appello allo spirito critico, un richiamo all’attualità e naturalmente alla vocazione di apertura della città. La manifestazione si è articolata per sezioni tematiche: Ancore, focalizzata sulle questioni fondamentali della contemporaneità; Sirene, dedicata alla figura mitologica, riflessioni su fake news, demagogia, populismi; Rotta su Napoli, riservata a tradizioni, culture, storie e protagonisti della città e della napoletanità; Un’ora con, che offre carta bianca agli ospiti per lectiones magistrales, dibattiti e presentazioni.

Proprio nell’ambito di Un’ora con, domenica mattina alle 11,30 Michele Serra ha presentato il suo ultimo libro “Le cose che bruciano”, edito da Feltrinelli.

Giornalista, polemista, scrittore, tra i fondatori del mitico settimanale satirico “Cuore”, Michele Serra, davanti ad un folto pubblico, è stato intervistato garbatamente dallo scrittore Francesco Durante, già direttore del Corriere del Mezzogiorno. Per l’occasione, l’attore fiorentino Andrea Renzi, reduce dall’ottima prova nella quarta serie di Gomorra, ha letto con particolare grazia e intonazione colloquiale alcuni passi del libro, che subito hanno svelato lo stile umoristico, arguto ma al tempo stesso dolente e disilluso del testo.

“Le cose che bruciano” è la storia dell’onorevole Attilio Campi, che furibondo, deluso e amareggiato per la bocciatura di un suo “brillante” progetto di legge, abbandona la carriera politica e si ritira in montagna, tra boschi e trattori.

In qualità di presidente della Commissione Educazione e Cultura, Campi aveva proposto di reintrodurre la divisa scolastica per liberare i ragazzi dal dovere dell’originalità a tutti i costi (“…mettiti questa divisa ragazzo, così per un po’ non devi più perdere tempo a distinguerti a tutti i costi. Puoi pensare a chi sei, non a quale felpa metterti…”). Sui social, dove il tempo dell’urgenza di dire la propria opinione è sempre inferiore a quello necessario a formarsene una, evidentemente nessuno ha apprezzato la proposta ed è partita immediatamente la gogna mediatica, il linciaggio, lo sberleffo. Gli odiatori di professione, i leoni da tastiera, sotto le mentite spoglie di nomignoli inferociti, spellano vivo Campi che addirittura si mette di buona lena a rispondere singolarmente. Non ha ancora compreso che mentre l’odio della folla manzoniana raggiungeva l’apice, si compiva la solita legge dell’autoesclusione degli intelligenti.

Stroncato, annichilito da un tal Ettore Mirabolani che in rete lo apostrofa “sei al soldo del potere”, Attilio Campi abbandona la politica e si ritira nell’immaginario paesino di Roccapane a coltivare lo zafferano. Deciso a godersi i piaceri della solitudine, dell’asocialità mediatica (senza internet), condivide le sue giornate con la piccola comunità agreste che lo circonda: la vita all’aperto è la sua guarigione (apparente).

Ma il fuoco amico dei ricordi inizia ad ardere impietoso. I rapporti personali irrisolti, le parole sprecate in televisione, le occasioni perdute quando viveva in società. Ma anche la sostanza fisica, materiale degli oggetti che il passato ha accumulato attorno a lui. Casse e casse di libri, lettere, fotografie, documenti, mobili tarlati, cianfrusaglie. Il canapè di zia Vanda, liso e minaccioso, è il generale crudele di quello che Attilio considera un esercito invasore. Vorrebbe liberarsi di quelle cataste e comincia a progettare roghi, per ridurre in cenere il lascito delle vite altrui. Vuole leggerezza, un cammino più spedito, più libero, sollevato dal ricatto della memoria.

Come capiterebbe a tutti noi, inevitabilmente brucerà quello che non avrebbe dovuto bruciare, in un finale di partita segnato dal classico colpo di scena (che Serra giustamente non rivela durante l’incontro). Attilio campi, prototipo del maschio alfa contemporaneo, ha in realtà una vita fortemente segnata dalla presenza delle donne: una moglie sempre in viaggio, la sorella femme fatale, la vicina di casa bulgara.

Ossessivo e ossessionato, Attilio Campi forse incarna la rabbia, l’insoddisfazione personale e politica di una generazione di adulti (quasi anziani) che orfana della grande madre della sinistra italiana, si rifugia nel privato. Un privato a tratti inconcludente, carico di comica mediocrità, involontariamente spassoso, ma al tempo stesso allegramente inevitabile, pieno di piccole illuminazioni.