E sì, l’aveva vista giusta Eugenio Giani quando, dopo le sconfitte del Campo Largo nelle Marche e in Calabria, diceva che lo stesso ‘campo’ funziona bene dove governa. Laddove intendeva ‘funziona elettoralmente’. Intendiamoci, la sua vittoria non è stata una sorpresa per nessuno, non era stata mai messa in dubbio. Ma sono le sue dimensioni ad essere ragguardevoli: più 6% rispetto al voto del 2020 per il candidato presidente.
Qualche movimento va invece registrato nel voto di lista. Il Pd pareggia la percentuale del 2020, 34,5%. AVS invece incrementa la percentuale della somma delle liste allora separate di Sinistra Ecologista (3% cinque anni fa) ed Europa Verde Progressista (1,6%), portandosi al 7%. In termini di voti assoluti però il Pd perde 126mila voti – la percentuale non si discosta per il crollo dei votanti – e AVS ne guadagna più di diecimila.
Le sorprese nel campo largo sono venute da Casa Riformista e dal M5S. La prima in positivo, la seconda in negativo.
Italia Viva e Più Europa insieme avevano preso il 4,5% nel ‘20, con 72mila seicento voti. Ora in Casa Riformista hanno preso il 9%, il doppio di cinque anni fa, con ben 76mila voti in più! Risultato più che lusinghiero, che tra l’altro conferma il radicamento organizzativo dei renziani nella regione.
In direzione opposta il M5S, che si è dimezzato. Nel ‘20 si era presentato da solo ed aveva raggiunto il 6,5%. Ora nel Campo Largo ha preso il 4,3%. Sembra poco, ma in termini assoluti ha perso più di 60mila voti. Evidentemente una parte importante del suo elettorato non ha gradito le scelte politiche del Movimento e si è astenuto. Giuseppe Conte ha parlato di una ‘soddisfazione’ del Movimento per aver contribuito alla vittoria di Giani nel contesto di una ‘scelta difficile’. Passa comunque da uno a due seggi in Consiglio Regionale grazie al premio di maggioranza. Sotto questo rispetto la scelta è stata felice.
Il centrodestra pareggia la percentuale del candidato presidente, il 40,5% nel 2020 con Susanna Ceccardi candidata , il 40,8% oggi con Alessandro Tommasi. Ma con una perdita secca in voti assoluti, circa 150mila in meno, altra linfa portata all’astensione!
Cresce nel centrodestra FdI sia in voti assoluti (+120mila), che in percentuale, dal 13,5 al 27% oggi! Un altro mattone aggiunto all’edificio della leadership di Giorgia Meloni nell’area di governo.
Per parte sua anche Forza Italia ha incrementato i voti assoluti (+9mila), sia pure di poco, e ha rafforzato in modo significativo la sua percentuale, dal 4,3 del ‘20 al 6,2% di questa tornata.
Clamoroso nel centrodestra il flop della Lega. Nel ‘20 aveva preso 354mila voti con una percentuale del 21,8%. Ora i voti assoluti sono stati 55mila e seicento, cioè 300mila in meno di cinque anni fa! E la percentuale è crollata al 4,4%. Al flop ha dato il suo importante contributo il più improbabile dei politici italiani, quel generale Vannacci di impolitica fama.
Riassumiamo: nelle Marche vince col 53% dei voti Francesco Acquaroli, presidente uscente, da giovane missino, come la premier di cui ha seguito il percorso fino all’attuale postura pragmatica. In Calabria viene confermato col 57% Roberto Occhiuto, uomo moderato di tradizione democristiana oggi in Forza Italia. In Toscana Eugenio Giani, ex PSI, da sempre nella sinistra riformista su posizioni moderate, viene rieletto col 54% dei voti. Percentuali analoghe, stesso posizionamento moderato all’interno dei due schieramenti, presidenti uscenti entrambitré, rieletti nel contesto di un crollo dell’affluenza.
Siamo dunque tornati al ‘potere logora chi non ce l’ha’ di andreottiana memoria? Pare proprio di sì, con delle differenze sostanziali.
Quando Giulio Andreotti faceva quell’affermazione si recava alle urne l’80% e più del corpo elettorale; la partecipazione era tutt’altra cosa rispetto a oggi. Eppure i due momenti della storia elettorale d’Italia hanno un comun denominatore, l’incidenza marginale dell’opinione pubblica nelle urne.
Allora, prima repubblica, il voto era in gran parte ‘di appartenenza’, si andava nelle urne per votare il proprio partito per comunanza ideologica. I comunisti votavano per i comunisti, i democristiani per i democristiani e via declinando fino ai partiti minori. Qualsiasi ‘persona’ avessero presentato i partiti, gli elettori avrebbero comunque votato il loro simbolo. E molti erano i voti solo sul simbolo.
Col passare degli anni, poco alla volta, il voto di appartenenza cominciò a cedere il passo a quello organizzato, cioè a quello con i singoli candidati che trainavano le liste. Gli elettori presero a scegliere insieme al partito la persona e i partiti a inserire nelle liste i ‘portatori di voti’, preferendoli ai più capaci o ai più coerenti con le proprie idee.
Dunque, predominio del voto di appartenenza, concorso del voto organizzato a partire dagli anni Ottanta, scarsa incidenza del voto d’opinione.
Il terzo segmento elettorale, il voto d’opinione, entrò per la prima volta nella scena politica italiana alle europee del 1984. Il PCI era ormai sulla via del declino e, elezione dopo elezione, perdeva voti. L’epica morte di Berlinguer suscitò una grande emozione collettiva in Italia, quello che i comunicatori definiscono uno ‘shock comunicativo’. L’opinione pubblica votò per il PCI, che con i suoi 12 milioni di voti circa superò anche la DC. Sembrò che il suo declino fosse stato fermato, ma fu un fuoco di paglia. Dopo cinque anni finì la storia del Partito Comunista Italiano.
Ma l’opinione pubblica per la prima volta dal dopoguerra aveva scoperto la sua forza. Poteva decidere i governi a prescindere dalle indicazioni dei partiti. Poi, finita la guerra fredda, la grande indignazione per tangentopoli ne rafforzò il peso nella scena politica italiana. E fu la stagione dei referendum, della preferenza unica, dei sindaci eletti direttamente dal popolo, dei professionisti del marketing politico.
Ma dicevamo del comun denominatore tra gli anni di Andreotti e i nostri. Eccolo: il peso dell’opinione pubblica si è rarefatto. Resterebbero il voto di appartenenza e quello organizzato. Ma anche il voto ‘di partito’ pare ormai in via di estinzione, salvo che per le vecchie generazioni. Resta quindi solo il voto organizzato. Appunto, il potere logora chi non ce l’ha!