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La chirurgia ai tempi del Coronavirus

by Ludovica Vacca
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La specializzazione in chirurgia non è cosa per tutti. Ci vogliono nervi saldi e mano ferma. Ma non è solo questo. Ci vuole umiltà e pazienza. La sala operatoria è una giungla, dove il più forte non è quello che mangia l’altro, ma quasi. Il più forte può dire quello che vuole e umiliarti per sei ore di intervento senza che tu possa muoverti, perché reggi un divaricatore per scansare il fegato da una lama tagliente. Dodici ore di lavoro al giorno sono la normalità. Le urgenze ti spingono anche a 18 e, spesso, le 36 ore lavorative che ti toccano in una settimana le assolvi entro il mercoledì. Sudore della fronte, digiuni prolungati e ingratitudine.

Tuttavia le branche mediche che possono vantare l’onore e la soddisfazione di CURARE i pazienti sono poche. E questo ti dà l’autostima e la convinzione necessarie a poggiare la testa sul cuscino tutte le sere, con gioia e compiacimento.

Eravamo gli eroi dei nostri giorni. Instancabili lavoratori. Stoici maratoneti, sempre sul pezzo. Mai troppo stanchi, sempre a disposizione.

Poi è arrivato il Covid-19.

L’epidemia a Firenze non si è abbattuta con tale violenza da necessitare l’impegno di tutte le branche mediche, ma la Regione ha saggiamente limitato l’attività chirurgica per permettere alle terapie intensive di salvaguardare i posti necessari ad eventuali catastrofi.

Da un giorno all’altro, la programmazione delle sale operatorie è stata ridotta. Delle sette sale settimanali, ne sono rimaste tre. La palestra degli specializzandi, composta da decine di ernie inguinali e centinaia di calcolosi della colecisti, sospesa. Fino a data da destinarsi. Liste d’attesa di mesi, trasformate in liste d’attesa di anni.

Rimangono i pazienti oncologici. Selezionati, scaglionati.

Tutto quello che non è “salvavita” è stato eliminato. Del resto quello che non ti uccide, ti fortifica. Ma che fine ha fatto il benessere? Ci si può davvero accontentare di esser vivi e rinunciare a interventi che ci farebbero stare meglio?

Perché la Fase 2, la ripartenza, in chirurgia ancora non c’è.

E allora quello che un tempo era il mestiere più duro della medicina, il più pragmatico, il più efficace, è stato messo in un angolo.

Gli eroi sono diventati altri. E noi siamo diventati turnisti. Sei ore al giorno sono davvero poche. Avere il tempo per fare la spesa, pulire casa, cucinare. Tutte cose che non siamo tagliati per fare.

Chi vive a distanza si preoccupa. “Lavori in ospedale”. “Sei a rischio”. “Stai attenta”.

Eppure non è paura quella che sento. È più un senso di incompiutezza. Il Covid ci ha resi non indispensabili e non è facile da accettare quando, per anni, sei stato costretto a rinunciare a qualunque spiraglio di normalità per eccellere in quello che fai.

I chirurghi, si sa, sono prime donne, innamorati di se stessi quanto del proprio lavoro.

E allora tanto di cappello ai colleghi che vivono questa emergenza in prima linea. A Cesare quel che è di Cesare. A loro va la gloria e, purtroppo, il rischio e troppo spesso anche di peggio. Presto tornerà il nostro tempo. Torneremo alla normalità. Alle nostre 12 ore e ai nostri digiuni.

Il cambiamento è una cosa strana, difficile da accettare anche quando ti si presenta come più tempo per te stessa, e per la spesa.