Finalmente la giustizia sarà liberata dal fardello delle correnti e dalla piaga della politicizzazione. Ai magistrati saranno sottratti – per dirla con Mantovano – i pieni poteri grazie ai quali irretiscono le politiche dei governi, fino a impedirne l’esercizio del potere esecutivo. In generale con la Riforma Nordio sarà tolta alle ‘toghe rosse’ la possibilità di condizionare la politica. Stringi stringi questa è la motivazione negli intenti e nelle speranze della maggioranza di governo.
Antitetica la lettura dell’opposizione. La Riforma Nordio è la tomba dell’autonomia e dell’indipendenza dei giudici, che saranno resi subalterni all’esecutivo. Il Governo vuole sottrarsi alla vigilanza della magistratura sul suo operato. Con la riforma viene alterato radicalmente il principio della separazione dei poteri. In definitiva si stravolge la Costituzione della Repubblica.
Grosso modo su questi due estremi verterà la campagna referendaria già annunciata. Eppure di per sé questa riforma non è niente di che. Per i cittadini e per lo stesso funzionamento della macchina della giustizia, quanto ad efficienza cambierà molto poco.
Il fulcro della riforma è la separazione delle carriere dei magistrati requirenti e di quelli giudicanti.
Oggi i piemme e i giudici sono inquadrati nello stesso ordine, sottoposti entrambi all’unico Consiglio Superiore della Magistratura, che ne determina le assunzioni, le assegnazioni, i trasferimenti, le promozioni e dispone i provvedimenti disciplinari nei loro confronti. Con la riforma saranno inquadrati in due ordini separati, quello dei magistrati requirenti e quello dei giudici, e saranno istituiti due CSM, uno per i piemme e l’altro per i giudici.
Non è una grande rivoluzione. Di fatto già da tempo, ancor più dopo la Riforma Cartabia del 2022, i passaggi di funzioni tra magistrati requirenti e giudicanti sono rarissimi, si contano sulle dita delle mani su base nazionale. Fosse stato solo per questo non sarebbe neanche valsa la pena di fare tremare una montagna che aveva in seno un topolino.
Più innovativa la modifica delle modalità della nomina dei membri dei due CSM. Oggi i membri dell’unico CSM sono eletti per due terzi dai magistrati e per un terzo dai parlamentari in seduta comune. Ovvio che il terzo scelto dai parlamentari sia designato con logiche politiche. Ma anche i due terzi indicati dai magistrati vengono scelti con dinamiche di fatto ‘politiche’, sulla base della loro appartenenza alle correnti interne alla magistratura, a loro volta con solidi collegamenti con la politica tout court. Ragion per cui, alla fine, l’attuale CSM è tutto politico. La Riforma Nordio prevede che i membri dei due CSM in quota magistratura siano invece sorteggiati, questa l’innovazione più rilevante. Ad avviso della maggioranza che oggi ci governa, ciò libererà la magistratura dal correntismo e dalle sue attuali equivoche colleganze con la politica. L’Associazione Nazionale dei Magistrati si oppone frontalmente a questo disegno, in quanto vede tolta ai magistrati la possibilità di autogovernarsi in totale autonomia. È tanto determinata a contrastare la Riforma che sta dando vita a comitati nazionali e locali per il NO alla sua approvazione ‘popolare’ in sede referendaria.
Infine la riforma costituzionale toglie ad entrambi i CSM la facoltà di prendere provvedimenti disciplinari nei confronti dei magistrati ordinari, requirenti o giudicanti che siano. Tale prerogativa, oggi attribuita all’unico CSM, sarà assegnata a un’Alta Corte Disciplinare composta da 15 membri, tre nominati dal Presidente della Repubblica, tre sorteggiati in un elenco pre-compilato dai membri del Parlamento, tre sorteggiati tra i magistrati requirenti e sei sorteggiati tra i giudicanti.
Questa in sintesi la Riforma. Va segnalato che, salvo che per la scelta del sorteggio, oggettivamente discutibile considerata la delicata funzione che i due CSM e l’Alta Corte Disciplinare andranno a svolgere, il resto era un atto dovuto, in particolare la normazione costituzionale della separazione delle carriere.
Cominciamo da lontano, 1946, varo della Costituzione. Durante il fascismo le carriere dei magistrati non erano separate. Tutt’altro. Anzi il Ministro Grandi è considerato uno dei padri dell’unicità delle carriere. A suo avviso l’unicità dell’ordine giudiziario garantiva la subordinazione politica della magistratura al Governo e al Duce. Carriere uniche tra inquirenti e giudici dunque, eppure non c’erano né la libertà dei cittadini, né l’imparzialità dei magistrati. Sarebbe interessante se i sostenitori del carattere illiberale in sé della separazione delle carriere se ne ricordassero.
L’Assemblea costituente non mise mano al Codice Penale e al Codice di Procedura Penale, le cui revisioni sarebbero spettate al Parlamento in quanto leggi ordinarie. Restò pertanto in vigore l’impianto del Codice Rocco e nel testo costituzionale fu confermata l’unicità delle due magistrature coerente con quell’impianto.
Fu alla fine degli anni Ottanta, sotto la regia dei giuristi Gian Domenico Pisapia – antifascista militante durante il ventennio, una vita a sinistra – e Giuliano Vassalli – tra i torturati di Via Tasso a Roma e medaglia d’argento al valor militare per il suo coraggio nella lotta partigiana – che fu varata la riforma del CPP. Il procedimento penale da inquisitorio divenne accusatorio. Da allora il pubblico ministero indaga ed esercita l’azione penale, l’imputato si difende e il giudice decide.
Nel ‘99 – governo D’Alema – fu poi varata la riforma dell’art. 111 della Costituzione, una modifica radicale del testo originario. Vi si legge, comma 2: <<Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale>>. Consequenziale rispetto al dettato costituzionale così novellato è dunque la separazione delle carriere avviata nel ‘22 – Governo Draghi – con la Riforma Cartabia.
Come si possa gridare all’attentato alla Costituzione e ai diritti liberali dei cittadini con la separazione delle carriere è incomprensibile. Questa riforma rende de jure ciò che è già de facto, e lo è per l’azione legislativa promossa da giuristi al di sopra di ogni sospetto di compiacenza con presunte mire autoritarie quali quelli sopra citati.
Ribadiamolo dunque, la Riforma di per sé è il classico topolino partorito dalla montagna.
Eppure ha uno straordinario valore politico. La destra al governo, che l’ha varata e approvata in Parlamento, specie sul versante Forza Italia, la rappresenta come la liberazione dalle ingerenze arbitrarie delle toghe rosse nella politica. Quelle toghe che furono protagoniste di tangentopoli e delle disavventure giudiziarie di Berlusconi. Una legge quindi volta ad addomesticare la magistratura, quasi con intenti punitivi. Così la sinistra interpreta la riforma e perciò scende in campo in difesa della magistratura. E Renzi, che di referendum costituzionali persi se ne intende e che pure nel merito di questa riforma si è astenuto in Parlamento, già ne dà la lettura politica che sarà quella dominante nei prossimi mesi: <<Se i cittadini bocceranno la Riforma, la Meloni dovrà dimettersi>>.
Sarà dunque un referendum sul Governo Meloni come fu di fatto quello del 4 dicembre 2016 sul suo Governo?
