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L’antisemitismo rossobruno

by Luigi Gravagnuolo
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Si stava lo scorso 28 gennaio nella sede del Social Tennis Club di Cava de’ Tirreni – organizzatore della Giornata della Memoria in collaborazione con l’Associazione Joined Cultures e con Il Centro Studi di Storia Locale – ed il prof. Pino Foscari, UNISA, nel chiudere la sua magistrale lectio sulla Shoah, proiettava sul pannello alle sue spalle la diapositiva che vedete in alto.

Foscari aveva illustrato le modalità comunicazionali che il regime fascista aveva adottato per indurre gli Italiani ad accettare le famigerate leggi razziali. C’erano state le pubblicazioni pseudoscientifiche sulla differenza tra le razze, le riviste ‘culturali’, gli interventi politici, tra i quali il celebre discorso del duce del 18 settembre del ‘38 a Trieste; ma a penetrare nell’animo della gente erano state in modo più incisivo e subdolo le vignette, il passaparola dei luoghi comuni sugli ebrei avidi ed usurai, la diffusione sistematica, con i mezzi e le modalità allora utilizzabili, di fake news denigratorie dei Giudei. Quando poi, con il varo delle leggi razziali, dalle parole si passò ai fatti, il popolo italiano era ormai accondiscendente o, nella migliore delle ipotesi, indifferente. Pochissimi furono quelli che si dissociarono pubblicamente dalla barbarie o che, in silenzio, cercarono di salvare le vite di alcuni Ebrei.

A conclusione della sua prolusione, Foscari proiettava dunque sullo schermo la vignetta qui riportata, aggiungendo: “Attenzione, questa non è la riproduzione di un reperto iconografico di quegli anni. È dei nostri giorni, circola sui social e riceve un numero esagerato di like, l’antisemitismo ancora serpeggia tra noi”. Una verità incontrovertibile, inquietante, ma reale.

Tra i neo-antisemiti ci sono, ovviamente, gli epigoni di quello originario, i neo-nazisti e neo-fascisti, ma non solo loro. Tutto l’universo populista e antiglobal, dei negazionisti della scienza e della storia, è attraversato da questi sentimenti. Ma quel che più sconcerta è l’ammiccamento di molti militanti e simpatizzanti della sinistra comunista, ex o tuttora tali. È il fenomeno detto del rosso-brunismo.

Come è possibile che gente alimentatasi fin dagli anni della formazione ai valori dell’antifascismo e dell’uguaglianza tra tutti gli uomini, che si ritiene erede del movimento partigiano, cada oggi in questa orribile trappola? La chiave di lettura è l’antiamericanismo, in particolare nelle sue declinazioni che accomunano l’imperialismo USA al sionismo. Riguardo a quest’ultimo, per sgombrare il campo da ogni ambiguità, diciamo subito che è del tutto evidente che in nome della memoria della Shoah non si può accettare il sionismo e la politica di Israele annessionista della Palestina in spregio a tutte le risoluzioni dell’ONU. Antisionisti sì, dunque, antisemiti mai. Ma torniamo all’antiamericanismo, porta di accesso alla all’antisemitismo. Esso viene da lontano ed ha permeato per mezzo secolo la cultura della sinistra italiana ed europea.

È noto che, dopo il 25 aprile, al netto di quanti subirono le epurazioni – in verità neanche tanti grazie all’amnistia – lo sconfitto movimento fascista si distribuì in quattro filoni: quelli che abbandonarono ogni velleità politica; i sognatori di un ritorno del fascismo, vale a dire i fondatori e i militanti del MSI; i quadri di cultura più istituzionale, che aderirono in larga parte dalla Democrazia Cristiana; e quelli che passarono al PCI. Proprio così, al PCI.

Per citarne alcuni: Mario Alicata, Giulio Carlo Argan, Paolo Bufalini, Renato Guttuso, Pietro Ingrao, Nilde Jotti, Davide Lajolo, Carlo Lizzani, Luigi Longo, Pier Paolo Pasolini, Cesare Pavese, Giaime Pintor, Elio Vittorini, Dario Fo e tanti altri. Avevano militato nelle file del partito fascista in diversi ruoli, alcuni anche in quelle repubblichine, come Dario Fo. Come mai degli ex fascisti aderirono al PCI e come mai il PCI li accolse fino a riconoscerli addirittura come componente rilevante della propria classe dirigente?

I percorsi furono diversi, sarebbe errato fare di tutt’erba un fascio. Alcuni lo fecero per opportunismo, come accade sempre nei cambi di regime, e di loro qui non ci occuperemo; altri si erano avvicinati al PCdI già durante il ventennio, grazie alla direttiva togliattiana ai militanti comunisti di fare entrismo nelle organizzazioni di massa del regime; altri al cospetto della tragedia bellica maturarono una genuina conversione; altri ancora, nel dopoguerra, videro nel PCI il partito che continuava, sotto altre spoglie, la guerra contro gli angloamericani.

L’entrismo era stato adottato dalla direzione del PCdI per la prima volta nel ‘28 in coerenza con i deliberati del VI Congresso della Terza Internazionale. Eravamo negli anni della collettivizzazione forzata in URSS e, fuori dall’URSS, della lotta alle socialdemocrazie. I socialisti, etichettati come social-fascisti, erano il nemico principale, per combattere il quale i comunisti terzinternazionalisti avrebbero dovuto allearsi anche col fascismo al potere in Italia e col partito nazista in Germania, vale a dire ai ‘fratelli in camicia nera’ (testuale!).

Tra il ‘35 e il ‘36, conquista dell’Etiopia da parte dell’Italia fascista, su indicazione di Stalin il PCdI appoggiò quell’impresa, che avrebbe assestato un colpo alle plutocrazie anglo-francesi a suo dire. Nel n. 8, dell’agosto 1936, Lo Stato Operaio, organo teorico del PCdI, pubblicò il manifesto titolato ‘Per la salvezza dell’Italia e la riconciliazione del popolo italiano’, primo firmatario Palmiro Togliatti. Rivolto ai ‘fascisti della vecchia guardia e giovani fascisti’ vi si legge: “Noi comunisti facciamo nostro il programma fascista del 1919, che è un programma di pace, di libertà, di difesa degli interessi dei lavoratori, e vi diciamo: Lottiamo uniti per la realizzazione di questo programma! … Solo l’unione fraterna del popolo italiano, raggiunta attraverso la riconciliazione tra fascisti e non fascisti, potrà abbattere la potenza dei pescicani nel nostro paese … Sono questi grandi magnati del capitale che impediscono l’unione del nostro popolo…

Il concetto è chiaro, fascisti e comunisti condividevano la lotta ai grandi magnati, dovevano perciò unirsi contro di essi. Due anni dopo questi grandi magnati furono identificati dal regime nei banchieri ebrei. Intanto era scoppiata la Guerra di Spagna dove i comunisti italiani, sempre su direttiva di Stalin, andarono a combattere dalla parte della repubblica e si trovarono a spararsi addosso, reciprocamente, con gli Italiani arruolati nelle truppe inviate lì da Mussolini per fiancheggiare Francisco Franco. Il PCdI e la Terza Internazionale scoprirono allora le affinità con i socialisti e non solo con loro, anche con le altre formazioni ‘borghesi’ antifasciste. Fu la svolta dei fronti popolari. Il PCdI non rinunciò tuttavia alla ricerca di una sua propria identità nazional-popolare, che rendeva ancora plausibile una unità di intenti con il fascismo. Essa venne riesumata nel ‘39, a valle del Patto di non aggressione Ribbentrop-Molotov, con cui Hitler e Stalin si impegnarono reciprocamente a non attaccarsi e concordarono di spartirsi la Polonia e i Paesi dell’Est europeo. La rottura unilaterale del Patto da parte di Hitler, con l’Operazione Barbarossa nel ‘41, non indusse tuttavia il PCdI ad abbandonare il progetto ‘nazionale-popolare’. Mutatis mutandis esso caratterizzerà il periodo della resistenza e del dopoguerra, quando il partito cambiò nome in PCI, inserendo nel simbolo il lembo della bandiera italiana. Infine, ai primi segnali della guerra fredda, il PCI accentuò i suoi strali contro gli Americani e contro la DC, additata come succuba e complice della riduzione dell’Italia a ‘colonia degli USA’. Fu in questo contesto che quel lungo lavorio ai fianchi delle organizzazioni fasciste, diede i suoi frutti e tanti ex fascisti si unirono alle file del PCI, in chiave antiamericana.

Emblematica è la vicenda de Il Pensiero Nazionale, di Stanis Ruinas, dalla inconfondibile veste grafica tipica delle riviste del regime. Ruinas, pseudonimo di Giovanni Antonio De Rosas, sardo, era stato tra i primi aderenti al fascismo, fin dal ‘24; poi giornalista e propagandista di tutte le aberrazioni più estremiste durante il ventennio, infine repubblichino a Venezia, dove però mantenne una postura ambigua, senza combattere i partigiani, piuttosto criticando il tradimento della gerarchia fascista nei confronti di Mussolini. Nel dopoguerra fondò Il Pensiero Nazionale, su posizioni antiborghesi, anticapitaliste e antioccidentali. Vi ospitò articoli di numerosi fascisti della prima ora, tra i quali Junio Valerio Borghese. La rivista fu co-finanziata dal PCI. In questa fucina emersero i Gigante, i Testa, i Mandarà, i Cilento e gli Scaffardi ed altri, che nel ‘49 aderirono in gruppo al PCI. Aspra fu la condanna de Il Pensiero Nazionale del neo-costituito MSI, reo di essersi ‘asservito all’imperialismo del dollaro’. I ‘fascisti rossi’ del Pensiero Nazionale intendevano continuare sotto nuove bandiere la battaglia già dei fascisti contro le plutocrazie anglosassoni e alcuni di essi le trovarono nel PCI.

La vicenda della Corea, quella di Cuba, il Vietnam e poi il Cile ed il sostegno USA ai regimi reazionari in Sudamerica e nel Mondo, alimentarono lungo tutta la seconda metà del secolo i sentimenti antiamericani ed antioccidentali della sinistra italiana, nelle cui file irruppe la generazione del ‘68 nelle sue variopinte formazioni gruppettare, fino alle formazioni della lotta armata. Infine la globalizzazione – ‘fase suprema dell’imperialismo USA’ nella lettura della sinistra USA-fobica – con la sua supposta regia da parte degli imperscrutabili circoli della finanza mondiale, manco a dirlo egemonizzata dagli Ebrei, sta alimentando in questi giorni i sentimenti della sinistra antioccidentale.

Ed allora questo il sunto: i nemici della sinistra sono i magnati americani, i magnati americani sono egemonizzati dagli Ebrei, ergo non lo diciamo ad alta voce, non ancora, ma compagni, guardiamoci dai Giudei!

Faccia attenzione la sinistra, non smarrisca il senno ancora una volta. Il mondo ha bisogno di una sinistra razionale, soprattutto con la testa sul collo.