Nel 1978, Paolo Volponi pubblica ‘Il pianeta irritabile’, né un’utopia né una distopia – se vogliamo – ma qualcosa che assomiglia molto a quella ‘utopia concreta’ di cui ha parlato il filosofo Ernst Bloch: perché ha a che fare con la nostra contemporaneità, con le angosce che nasconde e suscita, ma anche con un futuro che vive già ora, qui. Siamo nel 2293, un babbuino, un elefante, un’oca e un nano, quattro esseri viventi con una origine comune che lavoravano in un circo prima che ‘la bomba’ colpisse. I quattro si sottraggono alle ceneri dell’esplosione atomica e iniziano un viaggio alla ricerca di un’improbabile salvezza in un nuovo universo. La citazione non è tratta dal testo del romanzo, ma da un intervento che Volponi chiama “una specie di sfogo” o “confidenza” sulla “perdita della natura e dell’animale”.
«La natura e l’animale sono in realtà molto lontani dal nostro mondo, spezzati e in parte dimenticati, indagati, usati, condizionati, strumentalizzati, allevati, certamente tirati fuori dalla loro realtà, dalla loro condizione originaria, unitaria. (…) L’uomo, le sue società e scienze, i suoi piani di vita, di lavoro, superano molto spesso anche la vecchia entità della Terra, del globo, dei suoi elementi come della sua misura. Tutto è ridotto a strumento, mezzo, risorsa, energia o punto d’appoggio per un vorticoso percorso che va sempre più verso il fuori, verso un fuori (…).
La perdita è grave. La natura poetica persiste; persiste una natura in termini poetici, come aria, fiato: questo è quello che uno potrebbe dire dalla condizione anche modesta di scrittore.
(…) L’animale, da parte sua, esiste in tante associazioni e immagini – l’associazione, che è un meccanismo certamente psicoanalitico, ma anche poetico, lo vede come sangue, scatto, bocca aperta, rossa, anelante, pelliccia, calore, piuma, volo, vento, cattura, manovra, entratura, dentro, spinta, sesso, e anche dolce corpo conquistabile, assumibile, del quale uno si può addirittura caricare; e sempre funzionante: allarmato, terrorizzato, con l’occhio sbigottito (…) ma capace sempre di correre la sua vita, libera, pulita, pura, con una felice irresponsabilità. Ed è questa che forse l’uomo invidia. (…) La natura, l’animale e l’uomo sono quindi intimamente connessi e stretti. Non sono fasi diverse e distinte della creazione del mondo;
ma entità comprese nella stessa esplosione e materia interagenti tra loro. L’uomo è l’animale che ha saputo, sopra gli istinti e i programmi della specie, (…) organizzarsi e mutare, adattarsi, scegliere, cogliere, occasioni come frutti, come servizi di altri elementi della dinamica esplosione.
In definitiva noi abbiamo un corpo attrezzato, molteplice, come una macchina, con tanti organi, ed una dimensione che è la dimensione operativa, funzionale: noi siamo quel che possiamo fare, dopo millenni di esercizi nel fare. (…). La realtà è questa: che noi abbiamo il corpo che abbiamo proprio per la nostra operatività, che è insieme con quella della natura e dell’animale. La nostra grazia (…) secondo me è la misura, la misura unita e funzionante, intercorrente tra le nostre diverse entità. Un aspetto di questa grazia: l’amore, l’eros.
(…) Non mi pare che la natura sia stata superata e sostituita da una più precisa e provvida stanza, o tavola artificiale. (…) La natura artificiale mi pare tutta compromessa anche se benissimo organizzata, anche sul piano delle ipotesi e degli strumenti, dei propellenti, degli schermi, degli apparati: ben colorata, tesa, però, alla fine tutta mossa, sì, verso una nuova grande fioritura che mi pare essere quella, appunto, dell’immenso, superiore, velenoso fungo che si sprigiona dall’esplosione delle bombe atomiche e nucleari.
Insomma c’è stato un taglio immenso, un grande svisceramento, attraverso il quale si sono versati gli oceani e caduti a capofitto i continenti.»
Paolo Volponi, Il pianeta irritabile. (Una specie di sfogo).