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Legge 381/91, se l’occasione fa l’uomo ladro

by Luigi Gravagnuolo
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Può una legge pensata a fin di bene, finanche sacrosanta, diventare una breccia attraverso la quale nelle mura dello Stato si insinua l’esatto contrario del bene pubblico? È il caso della Legge 381/91 – Disciplina delle cooperative sociali.

Salerno, Pomigliano, Sparanise, Trapani, sono solo le più recenti indagini giudiziarie che hanno per oggetto reati connessi in qualche modo con questa legge. Anche la triste vicenda di Mimmo Lucano, ex sindaco di Riace condannato lo scorso settembre in prima istanza a 13 anni di reclusione, vede coinvolte due cooperative sociali, la “Ecoriace” e “L’Aquilone”, che il sindaco avrebbe favorito, forzando, a dire del giudice, i paletti della norma.

È appena il caso di sottolineare che ‘indagini’ non vuol dire ‘sentenze passate in giudicato’, la stessa condanna di Mimmo Lucano non è ancora passata in giudicato ed è in attesa dell’appello.

Sono peraltro numerose le sentenze di assoluzione al termine dei rispettivi iter processuali per vicende di questa fattispecie.

Nessuna condanna a priori dunque, ma resta il fatto che la normativa sulla cooperazione sociale apre di per sé il varco ad attività delittuose.

Il suo scopo, va ribadito, è nobile e pienamente coerente con la ratio generale del codice penale: punire per redimere, non per annientare coloro che hanno commesso un reato.

La 381/91 dunque consente alle pubbliche amministrazioni di affidare servizi ed attività a cooperative composte per il 30% minimo da soggetti svantaggiati, purché nei limiti delle soglie massime previste dalle norme comunitarie per i rispettivi settori.

Ma chi sono le persone svantaggiate? Vediamo:

“[…] si considerano persone svantaggiate gli invalidi fisici, psichici e sensoriali, gli ex degenti di istituti psichiatrici, i soggetti in trattamento psichiatrico, i tossicodipendenti, gli alcolisti, i minori in età lavorativa in situazioni di difficoltà familiare, i condannati ammessi alle misure alternative alla detenzione previste dagli articoli 47, 47-bis, 47-ter e 48 della legge 26 luglio 1975, n. 354, come modificati dalla legge 10 ottobre 1986, n. 663. Si considerano inoltre […]”.

La sottolineatura è mia. Fermiamoci qui e volgiamo lo sguardo alla realtà.

È un dato di fatto che, se una persona sbaglia e commette un reato che prevede la carcerazione, corre il rischio enorme di finire, proprio nelle carceri, avviluppata nella delinquenza organizzata. Una volta scontata la pena detentiva, la società “perbene” la esclude a priori. Per diffidenza, per paura, per voglia di starsene tranquilli da parte degli imprenditori, per altri motivi, sta di fatto che un ex detenuto o un detenuto in semilibertà non trova facilmente lavoro. Saranno i clan, il più delle volte, a garantirgli un reddito. Ovviamente non a gratìs, come diciamo a Napoli.

Così il periodo di pena trascorso in carcere per il reato commesso, da momento transitorio finalizzato al riscatto sociale della persona, si trasforma in induzione al suo reclutamento nelle organizzazioni criminali.

La 381/91 intervenne per rompere questo circolo vizioso. In qualche modo “suggerisce” ai detenuti in regime di libertà vigilata o agli ex detenuti di costituire delle coop sociali, quindi di proporsi al proprio Comune o ad antro Ente per ottenerne affidamenti diretti e di conseguenza il lavoro, cioè lo strumento principe per il riscatto sociale. E invoglia i pubblici amministratori ad accompagnare senza pregiudizi il loro percorso. Non c’è reato per una pubblica amministrazione a prevedere una riserva di servizi pubblici da affidare alle coop sociali, il che tra l’altro, non sottaciamolo, comporta anche benefici economici per gli Enti.

Eppure il rischio che la norma comporta è intuitivo, una coop sociale può essere costituita e controllata dagli stessi clan malavitosi per arginare i quali essa è stata concepita.

Il clan costituisce una coop sociale con un prestanome ‘pulito’ a rappresentarla legalmente, si propone per ottenere una committenza diretta, promette al politico o al funzionario di turno vantaggi sotto forma di tangenti e/o di voti e a volte qualcuno ci cade. Infine la coop ottiene la committenza ed il clan rafforza il suo radicamento territoriale, nonché si infiltra nei gangli dello Stato.

Rileggiamo ora alcuni titoli sulle recenti inchieste: Salerno, indagati amministratori delle coop, politici e funzionari pubblici; Inchiesta Brother a Trapani, una coop sociale nella bufera per la gestione di un centro immigrati, indagati un consigliere regionale ed altri 12; Inchiesta su un affidamento ai servizi sociali, si autosospende il sindaco di Sparanise; Le mani dei Casalesi su cooperative sociali e comunità per minori; Pomigliano, ai raggi x le assunzioni nelle cooperative legate alla camorra. Di Riace abbiamo già detto. Uno stillicidio.

Il fine della 381 va salvaguardato, ma oggi c’è il rischio che, con il reiterarsi di problematiche del genere ed alimentato dai media, lieviti un incontrollato allarme sociale che spinga per l’abrogazione della norma ovvero per il suo ripudio di fatto da parte degli amministratori gestionali e politici degli Enti Pubblici. Quale pubblico amministratore avrà il coraggio di avventurarsi su una strada così scivolosa? Il legislatore ci metta mano subito, dunque, prima che sia troppo tardi e che si trovi costretto dalla pressione giustizialista a buttare con l’acqua sporca anche il bambino.