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Pompei. Le radici osche riappaiono nella nebbia

by Federico L. I. Federico
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Le evidenze archeologiche emerse da alcuni secoli di scavi ci hanno fatto sapere che i Pompeiani conservarono la propria lingua, l’Osco, anche dopo la conquista e la colonizzazione romana, fino all’eruzione vesuviana del 79 d.C. Cioè per oltre un secolo e mezzo, circa 170 anni. Non poco. Ciò si evince dal ritrovamento di alcune lapidi in Latino duplicate nella versione in Osco. Mi viene da ricordare al lettore che più o meno è successo così anche per il dialetto Napoletano, che dal 1861 – dopo la vittoria Piemontese e la caduta del Regno Borbonico – è rimasto vivo tra la gente per oltre un secolo e mezzo, circa 170 anni. Tant’è che l’UNESCO nel 2014 lo ha dichiarato Lingua da preservare. Una coincidenza, certo niente di più, ma significativa. E’ la vittoria della Cultura di un Popolo sulla Storia. E qui ci voglio le maiuscole, altroché! Lo stesso nome “Pompeii” d’altra parte deriva dall’Osco. Il termine Osco è “Pumpàiia”, come affermava già alla metà dell’Ottocento Raffaele Garrucci. Egli era uno studioso gesuita, ma soprattutto un eminentissimo cultore di Lingua Osca. Ed era anche membro dei maggiori consessi scientifici di Archeologia del tempo. A Ercolano, a Napoli e nella Roma papalina. Insomma, un’autorità “internazionale” indiscussa, a quei tempi. Garrucci si pose in polemica con i sostenitori delle varie derivazioni del termine Pompeii, di cui ancora grondano articoli, guide e libri dedicati a Pompei. C’è chi vuole che la parola Pompei derivi dal greco “Pompèion”, che significa emporio. Oppure anche dal greco “Apopèmpo”, che significa spedire, con riferimento al ruolo svolto da Pompei nei commerci dalla Campania interna al mediterraneo, come ricorda lo storico e geografo Strabone. Ma altri ancora obiettano che la vera radice di Pompeii è nel termine latino antico “Pompa”, cioè corteo magnificente. La mitologia raccontava infatti di una Pompei visitata in “pompa” magna da Ercole di ritorno da una delle sue dodici memorabili fatiche.

A questo punto però diciamo al lettore di rimanere tranquillo! Non abbiamo nessuna intenzione di trasformare questo articolo giornalistico in una pseudo-dotta narrazione para-archeologica. Tutt’altro. Abbiamo solo voluto sottolineare la sterilità di certi ludi di dissertazione linguistica in cui si esercita certa Archeologia togata e autoreferenziale. E, nel contempo, rimarcare le radici profondamente osco-campane di Pompei, in quanto essa è presentata come una cittadina quasi soltanto Romana nella vulgata archeologica più diffusa. Eppure, è passato oltre un quarto di millennio in cui Pompei è stata indiscussa protagonista dell’Archeologia nel mondo. Ci domandiamo, per esempio, quali siano le cause del ritardo, quasi colpevole, della Archeologia togata che nei suoi vertici non ha affrontato la questione storica – aperta oggi più che mai – della vera datazione del Canale Conte di Sarno. Ci riferiamo ovviamente alla parte del suo percorso che attraversa in sotterraneo gli Scavi di Pompei. Dall’area dell’antica Porta Isiaca a quella della Porta Marina, cioè per oltre un chilometro e mezzo. Il Canale insomma sottopassa la Città Antica diretto verso la vicina Torre Annunziata, rifacendo in gran parte un percorso già tracciato da altri ab antiquo, verosimilmente in epoca Osco-Campana. E’ il parere di illustri studiosi contemporanei attivi non solo in Europa ma anche in America e Russia.

Per non abusare della pazienza del lettore facciamo un po’ di chiarezza. L’arcinota vulgata ufficiale della Storiografia pompeiana la conoscono tutti. Essa racconta che il Canale Conte di Sarno fu costruito tra il finire del Millecinquecento e i primi anni del secolo successivo. La impegnativa realizzazione del Canale vide protagonista Domenico Fontana, già architetto nella Roma papalina e poi Ingegnere maggiore alla corte Napoletana. Egli affiancò come “realizzatore” del Canale il conte di Sarno Muzio Tuttavilla, il quale ne fu “ideatore” e committente.

Si narra che Domenico Fontana godeva a Napoli della protezione reale, ma aveva dovuto lasciare Roma per dissapori con il Papa, che lo accusava neppure velatamente di opacità nella gestione delle opere papaline da lui condotte a Roma. Tale opacità egli continuò ad esercitare nella realizzazione del Canale. La verità da lui tenuta nascosta riguarda però la effettiva datazione del Canale Sarno. Dopo la costruzione del canale Sarno ci fu infatti chi insinuò la presenza di un canale arcaico ri-utilizzato da Domenico Fontana per farvi transitare le acque del Canale in costruzione. Ma si dovette aspettare l’Ottocento, quando lo stesso Raffaele Garrucci affermò formalmente in sede accademica che per completare il Canale Sarno si era “…ri-messo in uso un’antico acquidotto e non fabbricato uno nuovo”.

Sul finire dell’Ottocento fu addirittura il braccio destro dell’allora Direttore degli Scavi pompeiani Michele Ruggiero a sostenere la stessa tesi. Era l’ingegnere idraulico Domenico Murano, il quale scrisse che il Fontana aveva attraversato l’antica Pompei utilizzando un preesistente “…acquedotto Osco e quel tratto che attraversa la antica Città di Pompei da Oriente a Occidente” e disegnò un grafico eloquente a dimostrazione della propria tesi.

Ma questo non bastò all’Archeologia togata, la quale ha preferito chiudere tutte e due gli occhi, piuttosto che aprirli alla verità. Almeno fino ad oggi. Eppure, quasi cent’anni fa Antonio Gramsci ebbe a scrivere che la Verità è sempre rivoluzionaria. Noi speriamo quindi che gli studi in corso sui canali della Casa di Giulia Felice da parte dell’Università di Pisa siano abbastanza rivoluzionari da disperdere le nebbie enigmatiche persistenti sulla fase protostorica osco-campana di Pompei e sul Canalsarno.