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Regionali 2025, la competizione interna agli schieramenti

La Meloni cala e la Schlein si rafforza.

by Luigi Gravagnuolo
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Andiamoci piano a trarre conclusioni affrettate. Se mettiamo tra parentesi la lettura di propaganda dei risultati delle urne che ciascuna parte politica dà, non c’è nessun ‘modello’ regionale esportabile tout court a livello nazionale.

Il centrosinistra esulta per i risultati campani e pugliesi e sbandiera le alleanze ivi realizzate, alias campo largo, come la formula vincente in vista delle politiche del 2027. Il centrodestra risponde col modello Veneto: Stefani al 64% e Manildo al 29%. Prima Marche e Calabria erano andate al centrodestra e la Toscana al centrosinistra. Qual è il modello vincente sul piano nazionale?

C’è tuttavia un dato comune a tutte le regioni in cui si è votato quest’anno, l’astensione dalle urne della maggioranza del corpo elettorale. Ma anche questo dato non è scontato che si replicherà alle politiche tra un anno e mezzo. Molto dipenderà dalle emozioni del momento, dagli accadimenti che potranno suscitare paure o speranze e orientare le scelte degli Italiani. Vedremo.

Intanto qualche parola va spesa sulla disaffezione al voto, perché ha interessato in egual misura le regioni in cui ha prevalso il centrosinistra e quelle in cui ha prevalso il centrodestra.

Prima nota. Le urne regionali hanno coinvolto solo un’esigua minoranza di quelli che votano – meglio: votavano – per senso di appartenenza ad uno schieramento o a un partito. Rossana Rossanda, a chi le chiedeva se era di sinistra, rispondeva: “No, sono comunista”. Egualmente se qualcuno avesse chiesto ad Almirante se era di destra, si sarebbe sentito rispondere ‘no, sono missino’; così Fanfani o chi per lui si sarebbe detto democristiano, punto. Il senso di appartenenza ai partiti nelle generazioni del dopoguerra era alto. La stragrande maggioranza degli elettori andava alle urne innanzitutto per mettere la croce sul simbolo. Nelle ultime regionali il voto di appartenenza è stato ininfluente.

Seconda nota. Nullo o quasi anche il voto d’opinione, che viceversa era stato determinante nel passaggio dalla prima alla seconda repubblica, determinando la fine del sistema dei partiti della seconda metà del Novecento. Ora, dopo l’ultimo suo exploit nel 2013-18 con l’ingresso sulla scena del M5S, il voto d’opinione è in una fase di ristagno.

È restato solo il voto ‘organizzato’, cioè quello dell’ambiente politico in senso lato; il voto di quelli che sono legati ad un candidato o a un altro e quello dei gruppi di interesse che hanno rapporti con i politici, specie se gestiscono il potere. Così la competizione delle regionali si è svolta all’interno delle singole liste, tra un aspirante consigliere e un altro, o all’interno degli schieramenti tra una lista e un’altra. A gennaio, quando i politologi cominciarono a ragionare sulle sei tornate elettorali regionali che si sarebbero svolte durante l’anno, prevedevano tutti che sarebbe finita 3 a 3, tre Regioni al centrodestra e tre al centrosinistra. Mai profezia fu più facile, salvo che nelle proporzioni e, soprattutto, nei rapporti di forza interni agli schieramenti. Analizziamo quindi le sei tornate regionali sotto questo riguardo.

Nel centrodestra si è affievolita la leadership di Giorgia Meloni, che a inizio d’anno sembrava inscalfibile. Nelle tre regioni che sono restate al centrodestra, solo nelle Marche, in Toscana e in Puglia FdI ha confermato la propria egemonia. Ma in Campania, nonostante esprimesse il candidato presidente, è stata quasi raggiunta da FI. E in Calabria Forza Italia ha raccolto il 30% tra lista di partito e quella del presidente, contro il 12% di FdI e il 10% della Lega. In Veneto la Lega ha sfiorato il 40% mentre il partito della premier si è fermato al 19%.

Insomma Giorgia Meloni dovrà muoversi in un contesto ora reso un pochino più tortuoso rispetto al primo biennio di governo. I primi segnali già si vedono, la Lega che, delegittimandone la parola, fa saltare il suo accordo con la Schlein sul consenso consapevole delle donne nei rapporti sessuali e Forza Italia che incassa i primi risultati sui propri emendamenti alla legge di bilancio.

Nel centrosinistra la tendenza è in senso contrario. Lì si consolida la leadership di Elly Schlein. In Puglia il Pd e sue liste spin off superano il 30%, mentre i pentastellati si fermano al 7% e AVS al 4%. In Campania, la fu roccaforte del M5S che vi esprimeva anche il candidato presidente, tra Pd e liste affini si è andati oltre il 26% dei voti, mentre i pentastellati si sono fermati al 14% circa e AVS poco sotto il 5%. In Toscana il Pd e la lista del presidente avevano superato il 40%, contro il 7% di AVS e il 4% del M5S. Insomma la Schlein è già candidata premier in pectore del campo largo. Vedremo se la formula funzionerà fino alle politiche del ‘27.

Intanto serpeggiano malumori tra i pentastellati. Si aspettavano ben altro bottino, specie in Campania. Molti candidati, che già sognavano il seggio e lo stipendio da consigliere regionale e sono restati fuori, mugugnano contro Giuseppe Conte.

 

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