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Stampa libera. E responsabile.

by Luigi Gravagnuolo
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Tra il ‘92 e il ‘94 insegnai Teoria e Tecniche del Linguaggio Giornalistico al Corso di laurea in Scienze dell’educazione a Fisciano (SA). Erano gli anni pionieristici di tale insegnamento, finalmente assurto agli onori dell’Accademia. Quello dell’UniSa fu il secondo Corso di Laurea in questa disciplina, aperto in Italia dopo Pisa. Facebook, Google, Twitter etc. non erano ancora stati inventati, o per lo meno non erano ancora il vettore dominante del flusso delle notizie quali sono oggi.

C’erano le agenzie di stampa e le testate cartacee, televisive e radiofoniche divise – per semplificare – tra stampa ‘autorevole’, qualcuno la definiva ‘di regime’, e stampa schierata, che qualcuno definiva ‘libera’. E cominciava ad affacciarsi sulla scena dei media il Televideo, per me un eccellente sussidio didattico. L’accesso ai take di agenzia non era alla portata di tutti, per leggere Televideo invece bastava possedere un televisore.

Il mio insegnamento ruotava su due cardini: l’essenzialità della scrittura, quindi la sua de-aggettivazione e de-narrativizzazione, e l’etica dei contenuti. Ogni notizia andava accuratamente verificata alle fonti, quindi trasferita agli utenti dell’informazione in modo esaustivo e comprensibile. Senza enfasi retoriche e senza l’aggiunta delle valutazioni personali del giornalista. Queste ultime viceversa ineludibili negli editoriali e nei commenti. Televideo era esemplare e me ne servii abbondantemente.

Fatta questa premessa, si può capire che per me, allora, erano più attendibili le testate ‘di regime’ rispetto a quelle di battaglia politica, o sportiva, o quello che fosse.

Però non mi sfuggiva che erano pur sempre di regime. Le notizie scomode non vi entravano e, soprattutto, non ne uscivano. E poi, subdolamente, dentro l’impianto della notizia, il più delle volte filtravano punti di vista che, goccia dopo goccia, formavano la Weltanschauung maggioritaria dell’opinione pubblica.

Nella competizione tra stampa faziosa e stampa ipocrita a farne le spese era il giornalismo. I sondaggi degli istituti di ricerca più seri fotografavano già la diminuzione, se non l’azzeramento, della credibilità dei giornali presso i lettori e si registravano forti spinte verso un protagonismo diretto degli utenti. Da soggetti passivi a produttori dell’informazione. Da fruitori a diffusori delle notizie in presa diretta. Questo si sentiva nell’aria.

Internet non è nato dal nulla, ma da un potente, incontenibile bisogno sociale. E Internet fu. Ora sono i social a formare l’opinione pubblica in prevalenza. La libertà di stampa ha raggiunto il suo apogeo, ma non ci dà le agognate verità, bensì le più ripugnanti fake news alimentatrici di odii viscerali, giustizialismi straccioni e ripugnante pedopornografia.

È in questo contesto che trovano ragion d’essere testate come la nostra, Gente e Territorio, libere quanto alla proprietà ed alla cultura di chi ci scrive, eppure attente e faticosamente orientate alla verità.

Non credo sia un caso se la nostra testata, e tante altre come essa distribuite in ogni angolo del villaggio globale, stiano vedendo di questi tempi, mese dopo mese, una crescita di audit. Rispondono ad un bisogno sociale, quello della verità e di uno spazio dove si possa dialogare nella massima libertà. Vale la pena di difenderle.