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Umiliazione a scuola

by Piera De Prosperis
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“Soltanto lavorando per la collettività, umiliandosi anche, si prende la responsabilità dei propri atti. – ha affermato il Ministro dell’Istruzione e del Merito Valditara – Evviva l’umiliazione che è un fattore fondamentale nella crescita e nella costruzione della personalità, di fronte ai propri compagni. Da lì nasce il riscatto. Quando io ero un bambino, il maestro era il maestro con la emme maiuscola. Così non si può più andare avanti”.

Parole forti e discutibili, pur essendo il bullismo sicuramente un problema delle nostre scuole. Ma così si affronta la difficoltà, rispondendo a violenza con la violenza? Mi sembra a dir poco diseducativo, pur riconoscendo che mettersi a servizio della collettività divenendone parte attiva può rappresentare un percorso di recupero. Ma è umiliazione questa? Parola sbagliata in un contesto che non la richiedeva e che anzi le attribuiva un valore fortemente punitivo, da espiazione. Il ministro ha poi ritrattato, chiedendo scusa per il termine inadeguato, ma sottolineando che l’urgenza è imparare a chiedere scusa e che quindi ci vuole umiltà. Umiliare significa mortificare, offendere la dignità della persona, da qui non può nascere riscatto ma solo vergogna. Rimanere umili significa non sopravvalutarsi, mantenendo fiducia in se stessi.

La correzione del ministro mi sembra una pezza a colore, per giunta neanche del colore giusto. Si voleva effettivamente parlare di punizione, di castigo quando invece bisognerebbe parlare di responsabilità dei propri atti. Se un atto di bullismo deve essere condannato come è giusto che sia, esso deve passare per la consapevolezza che la punizione è volta a ricostruire un tessuto sociale di integrazione. L’umiliazione è esporre al pubblico ludibrio chi ha sbagliato. E come può un ragazzo vivere come giusta un’offesa inflitta proprio dalla scuola?       Il problema è ampio, di portata sociale. Esso va affrontato soprattutto agli inizi del percorso scolastico quando cominciano a definirsi le categorie di bullo e vittima. Ovviamente il compito più rilevante spetta agli insegnanti che dovrebbero rendersi conto delle dinamiche che si realizzano in classe, dove si riproducono in piccolo le relazioni sociali adulte. La scarsa cooperazione degli alunni nelle attività scolastiche può essere il primo segnale di un atteggiamento di ostilità verso gli altri. Dico questo perché quando si arriva a punire i bulli con attività definite socialmente utili, spesso si è in ritardo sui tempi. L’operazione di spegnimento del bullo e della sua integrazione nel gruppo deve essere preventiva ed avviata nel contesto della classe di appartenenza. Creare un approccio cooperativo per migliorare la relazione tra i ragazzi significherà di fatto migliorare anche la capacità di apprendimento dei ragazzi in difficoltà Altrimenti parliamo solo di umiliazione. E allora perché non i ceci sotto le ginocchia?         Capisco che non esista una ricetta unica e risolutiva del problema, che non esistono punizioni che scoraggino definitivamente i bulli, che applicare rigorosamente le regole è un segnale per l’intera comunità. Ma il fine dovrebbe essere quello di educare senza punire. Per questo il discorso del Ministro mi è sembrato solo un intervento rabbioso, privo di quella consapevolezza della difficoltà che il problema impone a tutta la comunità educativa, comprensiva delle famiglie e che quindi non va liquidato con poche parole, per giunta erroneamente usate.