Home In evidenza Urbanistica in Italia, un ‘pubblico’ che lavora per ‘pochi’

Urbanistica in Italia, un ‘pubblico’ che lavora per ‘pochi’

Furono diverse le scelte a Napoli nel 2019 e 2020

by Carmine Piscopo
0 comments

 

Caro Direttore,

ho letto con interesse gli articoli di Giovanni Squame sulla vicenda urbanistica milanese. Certo, comprendo profondamente l’attenzione che viene posta riguardo a una serie di distinguo. Primo tra tutti, la questione del rispetto delle normative, come un monito etico che si rivolge al mondo della politica, alle realtà istituzionali e agli amministratori tutti. Ma, al di là di tale quesito, che Squame ritiene di sciogliere con assoluta certezza, crediamo che nella vicenda milanese, e con essa negli accadimenti nazionali che vanno muovendosi, non tutto si giochi esclusivamente sul rispetto delle normative comunali o regionali, giacché da più parti forse dovremmo porci una domanda su quali fossero gli obiettivi e con quali strumenti e con quali procedure si sia inteso raggiungerli. E, soprattutto, perché.

L’urbanistica è sempre una questione di scelte motivate dall’interesse pubblico, che fanno (o dovrebbero fare) da sfondo a un insieme di procedure, che devono assicurare coerenza nel loro procedere ideativo e attuativo. E forse è proprio questa attenzione al quadro motivazionale (pubblico), come alla processualità tutta, a Milano, come in altre città d’Italia, che oggi viene posta in discussione. Ed è un po’ triste che a dover ispirare tali riflessioni sia la Magistratura, giacché la politica tutta sembra aver perso capacità critiche oltre che strumenti ideativi, ritenendo, piuttosto, di potersi muovere sempre con le stesse modalità, quasi come se il “campo urbanistico” in fondo non fosse diverso da un “campo largo”, nel quale le linee di demarcazione e i confini sono divenuti labili e le procedure aperte al regno delle interpretazioni.

So che può sembrare singolare questa analogia tra ciò che si definisce in politica un “campo largo” e una vicenda urbanistica, ma sembra che le cose stiano proprio così: è come se entrambe le questioni rinunciassero a un metodo di visione e di costruzione condivisa, in favore del raggiungimento di un obiettivo a tutti i costi “sfidante”, le cui parole d’ordine sono sempre le stesse: raggiungere il risultato, velocizzare, essere all’altezza della vertigine del tempo. Ma di quale tempo parliamo, viene da chiedersi? Il tempo di tutti, visto che a investire risorse (non solo finanziarie) sono ampi settori pubblici, o il tempo dei pochi che hanno ideato queste operazioni?

Sui rischi della velocizzazione del tempo, un secolo fa, già interveniva Massimo Bontempelli, con un bellissimo racconto rivolto (senza mai citarlo) a Filippo Tommaso Marinetti, allorché lo vedeva incitare il suo cavallo in un galoppo a perdifiato, fino a divenire un punto nel cielo. In fondo era questa la mirabile utopia del futurismo: superare il tempo e lo spazio, per ricostruirli secondo nuove dimensioni, più confacenti all’individuo “nuovo”, alla città “nuova”. Ma se lì era l’idea di una città per tutti, qui non è così. Qui è un pubblico che lavora per pochi, che stringe procedure e assetti che hanno alle spalle figure del diritto e istituti civilistici. Non è questa la città “nuova”. E il segnale che da più Procure oggi si alza, altrettanto, non è nuovo. La Cassazione, in uno con altre sentenze, è tempo che ricorda alle pubbliche amministrazioni di doversi impegnare maggiormente nella costruzione di quel senso di Stato-comunità, che si esplica nella condivisione delle scelte che coinvolgono il territorio, di cui vale la pena ricordare la proprietà collettiva, il cui uso deve includere ogni esercizio di democrazia. Tutto ciò, oltre ogni ragionevole scia, cila o permesso di costruire.

L’urbanistica, come si diceva, è sempre una questione di scelte ma nella vicenda milanese è come se esse facessero da sfondo a un quadro di riferimento teso a fornire una risposta a una, e una sola, tra le tante sfide del nostro tempo. Ciò che non si comprende è perché a Milano, come si sta pensando di fare a Napoli, come in altre città, si decida di rispondere in maniera così determinata solo ad una delle tante sfide del nostro tempo, operando varianti parziali e tralasciando, così, il bandolo di quelle più importanti che da tempo bussano alle nostre porte. Come, ad esempio, la mitigazione degli effetti del cambiamento climatico o la pianificazione ecologica, o la necessità di una nuova pianificazione che riduca le povertà o la realizzazione di luoghi di produzione di socialità e di benessere per tutti.

Vi erano, allora, o vi sono altri modi per rispondere alla questione della costruzione? Certamente sì. Ma essi presuppongono impegno, sforzo di orientamento e visione di cambiamento. Come, ad esempio, quelli basati sull’interpretazione dell’interesse pubblico, volti ad assicurare una pianificazione equa.

Al termine di questa nota, e con riferimento al Piano Urbanistico Comunale della città di Napoli, si vuol porre infine una domanda… Perché non si ricorda mai, in nessun documento, in nessuna nota a margine, in nessun articolo, che nel 2019 e nel 2020 questa città ha approvato, nelle Commissioni consiliari preposte, come in Consiglio Comunale, un Documento di Indirizzi del nuovo Piano Urbanistico Comunale e, successivamente, un Preliminare, un Documento Strategico e una Valutazione Ambientale Strategica? I cui contenuti partivano proprio dalla necessità di una pianificazione ecologica, alle cui fondamenta erano i dati scientifici relativi alle isole di calore, come al quadro dei rischi (a dir poco allarmanti) che concernono, contro ogni volontà politica, la città di Napoli. Con proiezioni al 2070, tali da indurre scelte urbanistiche di natura e di segno decisamente diversi.

Leave a Comment