Si sta concludendo una tre giorni di discussioni e di iniziative che è stata dedicata a Napoli allo strumento delle zone economiche speciali (Zes) ed alle iniziative per il futuro della industrializzazione del Mezzogiorno.
Tra qualche mese sarà trascorso un lustro dall’approvazione della legge che ha istituito nelle regioni meridionali le zone economiche speciali che nel mondo hanno costituito, nei passati decenni, uno dei vettori principali di sviluppo industriale, grazie ad una fiscalità di vantaggio e ad una semplificazione amministrativa che è stata affiancata, nei paesi in via di sviluppo che sono stati il laboratorio di questo strumento di politica industriale, da un basso costo del lavoro e da uno smantellamento sostanziale delle organizzazioni sindacali.
L’avvio delle Zes è stato dunque nel Sud lento, secondo la più classica tradizione italiana: si fanno leggi che poi si affossano nella fase dell’attuazione. L’importante non è fare, quanto piuttosto fare finta di fare, salvo poi maledire il destino cinico e baro che impedisce il cambiamento.
Nel mondo, le zone economiche speciali sono circa 5.500: una buona metà è stata in grado di generare uno sviluppo economico sostanziale di quei territori. Nel caso della Campania e del Mezzogiorno, alla legge istitutiva sono seguiti cinque decreti interministeriali di attuazione, una discussione durata più di due anni se gli incentivi fiscali dovessero essere automatici o meno, se l’autorizzazione per l’insediamento di una azienda nella Zes dovesse essere unica, oppure se era più attrattivo mantenere le trentaquattro autorizzazioni esistenti, aggiungendone una specifica per la Zes. Stupisce anzi che nessuno abbia proposto che un imprenditore intenzionato ad insediare un’impresa nel Mezzogiorno non dovesse fare prima un salto nel cerchio di fuoco con le gambe legate e gli occhi bendati.
Insomma, a volte, per la verità sempre più volte, l’architettura istituzionale italiana è alla ricerca di un “effetto Gabibbo”, quasi nella ostinata convinzione che serva una risata liberatoria per poter cambiare uno stato insostenibile della realtà.
Poco si è riflettuto su un elemento essenziale, nel considerare l’assetto istituzionale che doveva essere definito nel Mezzogiorno per le zone economiche speciali. Per quanto strano possa sembrare, l’Italia non è un paese in via di sviluppo, quanto piuttosto un paese ad industrializzazione matura. Anche ad occhio, fotocopiare una legislazione pensata ed attuata per realtà che dovevano incamminarsi su un sentiero di attrazione industriale che partiva dall’assenza di un tessuto e di una esperienza manifatturiera, non poteva essere la via maestra per chi invece aveva l’obiettivo di sperimentare le Zes in un territorio caratterizzato da una economia non solo storicamente radicata nel capitalismo, ma anche testardamente finora incapace di generare un solido sviluppo economico, nonostante le molteplici strade che sono state sperimentate nel corso di tanti decenni.
Certo, per tante ragioni di contesto, le regioni meridionali non possono essere attrattive nel contesto internazionale, per il basso costo del lavoro o per un tasso di sindacalizzazione sotto il controllo delle volontà imprenditoriali. E nemmeno si intravedono le condizioni per una radicale sforbiciata delle tasse, così come si è fatto per le Zes maggiormente competitive nel mondo. Oltretutto gli strumenti di incentivazione messi in campo dal legislatore italiano, se confrontati con quelli delle altre Zes nel mondo, sono davvero poco attrattivi, in quanto si limitano ad un credito di imposta parziale sugli investimenti e ad una limatina sulla fiscalità aziendale negli anni iniziali di attività.
E allora, quali possono essere le leve sulle quali si può finalmente provare a far decollare le zone economiche speciali in Campania e nel resto del Mezzogiorno?
Innanzitutto, va promosso un programma basato sul disboscamento di quella inutile burocrazia ottusa che non solo allontana le decisioni di investimento degli imprenditori, perché spaventa per la sua lentezza, ma spesso è piuttosto diventata la radice della corruzione, essenzialmente per generare corsie preferenziali di velocità rispetto alla palude nella quale restano impigliati gli imprenditori onesti.
Poi, c’è da far decollare un rapporto strutturato tra industria e ricerca scientifica, tra imprenditori ed Università. Un territorio collocato in un Paese ad industrializzazione matura deve puntare sull’economia della conoscenza, sul valore aggiunto determinato dalla innovazione che genera competitività.
Mentre ci avviamo a festeggiare un lustro dalla nascita delle Zes, forse qualche riflessione più matura e più consapevole sarebbe il caso di farla. Assistere alle consuete giaculatorie sull’ennesima occasione sprecata sarebbe davvero irritante, a meno di non voler convocare il Gabibbo nella squadra titolare delle istituzioni. Non è un traguardo ormai molto ambizioso per la qualità media della classe dirigente degli ultimi decenni. Almeno, ci si divertirebbe certamente di più.