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L’equivoco dell’educazione sessuo-affettiva

ciò che si teme non è ciò che è

by Francesca Pica
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Foto by Save the Children

 

Che terribile coincidenza: proprio mentre tutti i giornali raccontavano i dettagli dell’ultimo terribile femminicidio, in Commissione Cultura alla Camera si votava un emendamento della maggioranza che vieta “tutte le attività didattiche e progettuali attinenti all’ambito della sessualità” non solo nelle scuole dei più piccoli, ma anche alle medie. È presente solo alle superiori come materia facoltativa, ovvero previo consenso dei genitori. Detta semplice, significa che non se ne deve parlare. E, se proprio volete farlo, sarà alle superiori, non prima che mamma e papà abbiano detto di sì.

L’Italia è rimasta uno degli ultimi Paesi in Europa in cui l’educazione sessuo-affettiva non è una materia obbligatoria. Ma perché parlare di educazione sessuo-affettiva a scuola sembra, ancora oggi, un campo minato? Appena se ne discute, il dibattito si polarizza: da un lato chi ne invoca l’urgenza come strumento di prevenzione e consapevolezza, dall’altro chi la teme come un’invasione nel terreno dell’intimità e dei valori familiari. In mezzo, spesso, resta l’equivoco di fondo: quello che confonde l’educazione con l’indottrinamento, la conoscenza con la suggestione, la consapevolezza con la perdita dell’innocenza.

Eppure, il significato dell’educazione sessuo-affettiva è tutt’altro. Non si tratta di “insegnare il sesso”, ma di offrire ai ragazzi gli strumenti per comprendere il proprio corpo, le emozioni, i limiti e il rispetto di sé e degli altri. È un percorso che unisce la dimensione biologica a quella emotiva, affettiva, relazionale. Serve a prevenire violenze, stereotipi e abusi, non certo a sostituire il ruolo dei genitori, ma a integrarlo con un linguaggio educativo e neutro, fondato su evidenze scientifiche e psicologiche.

In un Paese come il nostro, dove la violenza di genere e gli stereotipi sessisti sono ancora profondamente radicati, escludere percorsi educativi che promuovano il rispetto reciproco, la consapevolezza delle relazioni, significa abbandonare i più giovani al buio dell’ignoranza. Con tutto ciò che ne consegue. Chi si oppone spesso immagina lezioni premature, contenuti espliciti o tentativi di “indirizzare” l’identità dei bambini.

Ma il modello educativo adottato nei Paesi europei che da decenni praticano la sex education dimostra il contrario: l’obiettivo è insegnare il consenso, il rispetto, la parità di genere, la responsabilità affettiva. Dove questi temi sono affrontati in modo sistematico, si registrano meno gravidanze precoci, meno infezioni sessualmente trasmissibili e una maggiore capacità dei giovani di riconoscere situazioni di rischio o manipolazione.

L’equivoco nasce forse dal termine stesso: “sessuo-affettiva”. Due parole che, accostate, spaventano perché toccano ciò che di più privato esiste. Ma educare non significa violare un’intimità, significa accompagnarla. E in una società iperconnessa, dove la pornografia è l’unica maestra disponibile e dove il corpo è costantemente esposto e giudicato, il silenzio non protegge ma espone.

A guardar bene, la vera domanda non è se sia giusto parlarne a scuola, ma come farlo. Con quali parole, in quali tempi, con quali strumenti. È su questo terreno, pedagogico e non ideologico, che dovrebbe spostarsi il confronto. Perché crescere cittadini consapevoli non è un atto politico, ma un atto di responsabilità collettiva.

 

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