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Agli inizi del container

by Pietro Spirito
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Il libro a cura di Sergio Bologna, “Agli inizi del container. Il Lloyd Triestino e le linee per l’Australia”, Asterios Editore, 2021, consente di fare qualche riflessione di lungo periodo a sessantacinque anni dalla invenzione del container, in una fase nella quale la logistica ha ormai assunto una centralità nella organizzazione economica globale e il capitalismo sta assumendo le vesti di un sistema strettamente legato alla mobilità, all’energia ed alla digitalizzazione.

Nella introduzione Zeno D’Agostino, Presidente della Autorità di Sistema del Mar Adriatico Settentrionale, sottolinea che la storia ricordata in questo volume è l’occasione per raccontare una vicenda importante del nostro passato, ma anche per riflettere sul futuro dei prossimi decenni. Il container è da considerarsi “protagonista assoluto della globalizzazione degli ultimi decenni grazie alla sua opera di democratizzazione dei territori che ha permesso di realizzare insediamenti industriali in ogni parte del globo grazie al quasi annullamento del costo del trasporto marittimo intercontinentale”.

Sergio Bologna ricorda che, a capire tra i primi che il container avrebbe cambiato la storia, sono stati i redattori di “Primo maggio”, una rivista pubblicata in Italia nei turbolenti anni Settanta. Nel numero 12, del giugno 1978, era apparso un articolo intitolato “Storia del container”, autore un giovane veneziano, Franco Bortolini.

Con il libro si commemora il 50mo anniversario della costruzione della prima nave full container di bandiera italiana, progettata e costruita nello scalo dei Cantieri del Muggiano di La Spezia nell’aprile 1971, e delle prime movimentazioni di container da parte del Lloyd Triestino in qualità di ‘principal carrier’, partner del consorzio A.E.C.S. (Australia Europe Container Services), divenuto in seguito A.N.Z.E.C.S. (Australia New Zealand Europe Container Services).

I primi consorzi nascono negli anni Sessanta su due rotte: Giappone-Stati Uniti sul Pacifico e Stati Uniti-Gran Bretagna/Nord Europa sull’Atlantico. Il consorzio di cui stiamo parlando – costituito formalmente nell’ottobre 1969 – comprendeva compagnie tedesche, britanniche, olandesi, francesi, australiane e il Lloyd Triestino per l’Italia. Serviva la rotta Australia-Europa, un tragitto di più di diecimila miglia nautiche, per l’esattezza Tilbury-Sydney via Suez sono 11.724 miglia, via Capo di Buona speranza 12.470.

Il Lloyd triestino aderisce al consorzio ma la sua nave, la “Lloydiana”, entrerà in servizio solo nel 1973; la sua presenza nel consorzio comporta però un importante cambiamento rispetto all’itinerario previsto inizialmente. Perché? Nel 1970 il Canale di Suez era ancora chiuso, da tre anni. la guerra tra stati arabi (in particolare Egitto) e Israele aveva portato a questa drammatica situazione che sarebbe durata altri cinque anni, fino al 1975.

Chi conosce la storia di Trieste dai tempi dell’impero asburgico sa che importanza ha avuto il Canale di Suez per lo sviluppo dei suoi traffici. entrare allora in un consorzio le cui navi, per raggiungere l’Australia, dovevano fare la rotta del Capo, significava tagliar fuori i porti italiani, anzi tutti i porti mediterranei.

La spinta iniziale verso lo sviluppo dei container non venne soltanto dai porti o dalle compagnie di navigazione o dal mondo dei trasporti, ma anche dalle grandi industrie, o soprattutto dalle grandi industrie, a cominciare dalla Fiat, dalla Finsider, dalla Shell, dalla Breda, quindi dai vertici dell’industria pubblica e privata.

Non tutti erano convinti della rivoluzione che il container avrebbe determinato nella struttura del capitalismo. Nel corso di un convegno dell’epoca, il rappresentante del porto di Trieste, l’ing. Colautti – sloveno di origine, laureatosi a Lubiana e poi specializzatosi a Vienna – non solo non condivise le argomentazioni del dirigente della Shell Italiana ma, anzi, ironizzò sulla nuova mania del container, chiamandola “containerite”. Secondo lui, se si doveva parlare di una standardizzazione dei carichi e per un servizio door-to-door, era sufficiente parlare di pallettizzazione.

L’innovazione dettata dalla introduzione del contenitore, coglie Trieste e la sua economia in uno dei peggiori periodi della storia. L’economia del mare triestina subiva una mutilazione drammatica. La cantieristica, orgoglio della città, industria che aveva costruito alcune delle navi più belle del mondo, che aveva di fatto inaugurato l’epopea del design d’interni italiano, e il suo ciclo integrale, la grande navalmeccanica della costruzione dei motori, della componentistica, stavano chiudendo i battenti. La politica, e governi italiani, avevano deciso di razionalizzare l’industria pubblica afferente all’economia del mare.

Giulio Sapelli, in una sua ricerca su quegli anni, ha sottolineato che “dinanzi a questi profondi rivolgimenti, il Lloyd, pur tra grandi difficoltà di origine precipuamente culturale, per la formazione ‘municipalistica’ di una parte del suo management, intraprende un’opera diretta a costituire consorzi internazionali per la gestione ‘al container’ delle linee transoceaniche”.

Sappiamo poi che questa caratteristica è rimasta come uno degli elementi organizzativi permanenti del sistema marittimo, prima con le Conferences e poi, più recentemente, con le tre Grandi Alleanze. Nella costruzione del network dei collegamenti transoceanici tale fattore ha certamente rivestito una importanza primaria, pur se poi è diventato un elemento per imbrigliare il mercato, con la formazione di oligopoli e di cartelli che hanno condizionato, e condizionano, l’andamento dell’economia marittima e dell’economia manifatturiera.

Giacomo Borruso, uno dei protagonisti dell’accademia italiana, ancora giovane studente in un’altra iniziativa pubblica di quei tempi, coglie le novità che stanno emergendo nel sistema logistico internazionale: “Il fatto innovativo non è dunque costituito dal container, preso come cosa a sé stante, ma da tutto il complesso movimento che, partendo dal container sta imponendo radicali trasformazioni a tutto il sistema di distribuzione delle merci, sia sul piano tecnico che sul piano giuridico, bancario, assicurativo, doganale”.

Il Lloyd, proprio mentre diventata protagonista della rivoluzione del container, diventava sempre meno “triestino” e sempre più “genovese”. Il Cetena, il C.I.s.Co., la Facoltà d’Ingegneria dell’Università – il sistema della ricerca a Genova era largamente superiore a quello triestino. La città giuliana aveva perduto i suoi cantieri e – quando inizia un processo di deindustrializzazione – la ricerca non ha più ragione di esistere. La chiusura del Canale di Suez aveva contribuito ulteriormente a fare di Trieste, della Trieste marittima, una periferia.

L’inizio della rivoluzione del container non è stata una passeggiata di salute. Il business delle linee full container incontrò subito delle difficoltà, basti pensare che solo cinque mesi dopo la consegna della ‘Lloydiana’ scoppiava la crisi petrolifera (ottobre 1973). nasceva un nuovo assetto del potere politico-economico mondiale, i paesi produttori di petrolio cominciavano a dettare legge e a condizionare la finanza mondiale con le loro immense riserve di liquidità.

Seguì un periodo di altissima inflazione: l’Italia per di più era attraversata proprio in quegli anni da agitazioni sociali di portata mai vista. La spirale salariale mise in difficoltà, ancora più di quanto già lo fosse, il settore pubblico di cui faceva parte il Lloyd triestino.

Da allora è cominciato il declino economico e strategico nazionale. Si avviava, negli anni Ottanta del secolo passato, quel dominio del neoliberismo internazionale, con la distruzione dell’economia pubblica, che ha spiazzato l’Italia e l’ha resa prigioniera del suo crescente debito pubblico. Il libro curato da Sergio Bologna consente, come sempre, di riflettere sui passaggi di un mutamento logistico che è poi una leva potente per trasformare il modello capitalistico.