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Everything Everywhere All at Once

by Piera De Prosperis
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Everything Everywhere All at Once (Tutto ovunque in una sola volta). Scritto e diretto da Daniel  Kwan e Daniel Scheinert, “The Daniels”. Il film quest’anno ha vinto ben sette Oscar, ma anche due Golden Globe e un Premio BAFTA.

La protagonista è cinese ma vive da tempo negli Stati Uniti. E’ in crisi profonda con il marito e con la figlia, senza contare le difficoltà economiche della lavanderia a gettoni che gestisce. In questa quotidiana banalità irrompe il multiverso. Perché la protagonista, assumendo in sé le qualità delle sue varianti, deve salvare il mondo da una entropia cosmica. Il mondo si frammenta, il presente viene scomposto in modo che l’eroina possa affrontare un problema per volta, anche sfoderando una non comune abilità nel kung-fu. I combattimenti con le arti marziali che pure rimandano ai film di genere degli anni ’80, gli uomini che si trasformano in supereroi, le vicende che strizzano l’occhio ai videoclip, insomma il film è una summa di quello che è il panorama attuale della filmografia di maggiore successo. Tante critiche positive, ma anche tanta perplessità. Probabilmente il pubblico che l’industria cinematografica americana cerca di cooptare è quello giovane. E’ infatti un cinema diverso, esagerato nelle situazioni e nelle soluzioni. A partire da questo benedetto metaverso, senza il quale sembra che ormai non sia più possibile costruire storie. Anche se, nello specifico, tutto comincia dalla crisi di una donna comune di mezza età, chiaro tentativo di coinvolgimento di una fascia di pubblico più attempata. Come avrete capito la trama è molto complicata e quasi impossibile da riassumere. La morale è che, grazie alla possibilità di conoscere altri universi e confrontarsi con mondi ai confini della realtà, si possono conoscere i propri punti di debolezza ed ancor più di forza, in un tempo che pone tutti gli eventi sullo stesso piano perché tutti ugualmente importanti.

Trovo, tuttavia, questo tipo di prodotti estremamente faticosi per lo spettatore medio, come me, che pur curioso cerca altro. Una storia, un’avventura in cui immedesimarsi, non un film che ha bisogno di essere capito con il tempo o, cosa ancora peggiore, ha bisogno di una preparazione introduttiva. Sarà un modo di sentire superato ma rimpiango le storie alla Via col vento, colossal del 1939 premiato con otto Oscar, o Titanic o Forrest Gump. Trovo che il grande schermo premi soprattutto questo tipo di film, spettacolari ma capaci comunque di coinvolgere emotivamente lo spettatore, regalandogli due ore di assoluto rapimento. Proprio perché ai film italiani manca questo respiro, ma forse anche le risorse di budget che hanno i prodotti americani, difficilmente essi entrano nella rosa dei film candidati agli Oscar.

Passaggio generazionale anche al cinema ma fatemelo dire… ridateci Rossella O’Hara