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First Man: un viaggio interiore

by Carla Lauro
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Presentato in anteprima mondiale come film d’apertura della 75esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia e nelle sale dal 31 ottobre, First Man è il racconto intimo di una delle più incredibili imprese compiute nella storia dell’umanità.

Diretto da Damien Chazelle, prodotto da Steven Spielberg ed interpretato da Ryan Gosling, il film è l’adattamento cinematografico della biografia ufficiale di Neil Armstrong, “First Man: The Life of Neil Armstrong”, scritta da James Hansen e pubblicata nel 2005, e ne racconta la vita in un arco di tempo che va dal 1961 a quel 1969 che segnò “un piccolo passo per un uomo, ma un grande balzo per l’umanità”.

Ma qual è il senso di realizzare oggi un film che racconti la più che nota storia dello sbarco del primo uomo sulla Luna?

La risposta è semplice e si evince, implicitamente, fin dalla prima scena. First Man non è un film che cerca spettacolarità. L’obiettivo principale di Chazelle non è quello di raccontare dello sbarco sulla luna ma, di contro, quello di scavare nell’intimità di un uomo, la cui vita è costellata di sofferenze, fatiche e di un lutto incolmabile che lo ha logorato per la sua intera esistenza e che ha tenuto sempre chiuso dentro di sé.

Il film analizza la lucida follia dietro all’idea di mandare qualcuno sulla Luna negli anni Sessanta, quando ancora le tv erano in bianco e nero e gli astronauti, chiusi in ammassi di ferraglia, schiacciavano pulsanti e facevano i conti con carta e penna

Ma ciò che emerge in modo preponderante è il racconto di tutti gli eventi che hanno portato al successo dal punto di vista di Neil Armstrong e di sua moglie, eventi tragici che lo hanno spinto ad andare nel posto più lontano dalla Terra per comprendere che, per quanto lontano andasse, non avrebbe mai potuto soffocare quei sentimenti.

First Man è un film sobrio e contemplativo, fa morire le lacrime in gola per quanto è potente e riesce ad emozionare e generare suspense, nonostante l’epilogo sia noto a tutti.

Il risultato finale, quello del 20 luglio del 1969, è l’apice di un percorso, pieno di sforzi immani e dolorosi in cui restano costanti l’energia e la voglia di inseguire un sogno con la speranza di andare oltre le debolezze e superare i fallimenti attraverso duro lavoro, completa abnegazione e grande serietà.

Si tralasciano quasi del tutto le vicende politiche, le contestazioni e anche tutta la società civile americana. Emerge il ritratto quasi rurale di un’America che, come ricorda lo stesso Armstrong nel film, aveva imparato a volare solo da una sessantina d’anni: come pretendere che andasse tutto liscio come l’olio?

“Falliamo qui non per fallire lassù” dice l’Armstrong di Ryan Gosling durante l’ennesima sconfitta di un’esercitazione prima del grande passo. Questa frase è la sintesi della sua interessante personalità. E’ un po’ come dire “falliamo qui per poter imparare e raggiungere i nostri scopi”.

I rumori ed i suoni sono protagonisti. Dall’inizio alla fine del film si percepiscono cigolii, respiri, boati intervallati da profondi silenzi nello spazio; una vera e propria immersione ottica e sonora dentro un abitacolo ed all’interno di una visione soggettiva del volo ad altissima quota.

La stupenda colonna sonora, di Justin Hurwitz, ci guida in questo viaggio catartico, verso la Luna ma soprattutto dentro di sé.

di Carla Lauro