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La “spazza-corrotti” non può funzionare anche da “spazza-garanzie”

by Maria Vessichelli
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L’Autrice è Presidente di Sezione della Corte di Cassazione.

Non è facile stabilire se un legislatore “disattento” o viceversa un legislatore “consapevole” sia quello che, approvando la cosiddetta legge “spazza-corrotti”, ha posto le premesse per una possibile, ingiusta, applicazione retroattiva di una parte significativa di quella normativa.

Andando con ordine, si ricorderà che la legge di contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione, e cioè essenzialmente contro il fenomeno della corruzione, (la n. 3 del 9 gennaio 2019), aveva disposto che ai reati avuti di mira, e cioè corruzione, peculato, concussione ed altri similari, si sarebbe estesa la norma penitenziaria (art. 4 bis, comma 1, l. n. 354 del 1975) che vieta la concessione di benefici ai detenuti che non collaborano con la giustizia.

Ad una prima lettura del testo di legge si poteva giungere alla conclusione che le nuove disposizioni, peggiorative della fase esecutiva della pena per i reati citati, si sarebbero applicate non solo ai colpevoli dei futuri illeciti, ma anche a chi il reato lo avesse commesso prima dell’approvazione della novella. Infatti, la legge era operativa subito e non era stata prevista nessuna norma transitoria (o deroga) per gli autori dei reati già consumati.

In pratica, il condannato per corruzione ad una pena inferiore ai quattro anni, il quale avesse chiesto di sospendere il decreto di esecuzione della pena e prevedesse di accedere ad esempio all’affidamento in prova al servizio sociale e cioè ad una forma di esecuzione della condanna senza fare ingresso in carcere, improvvisamente, a seguito della riforma spazza-corrotti, si sarebbe visto revocare questo beneficio ed aprirsi le porte del carcere. Con sensibile mutamento delle modalità del processo rieducativo al quale aveva legittimamente aspirato.

Così per chi avesse chiesto la detenzione domiciliare per motivi di età, o la semilibertà per la regolare condotta tenuta in regime cautelare.

Infatti, la realtà giurisprudenziale consolidata fino a quel momento faceva sì che i giudici si trovassero ad operare in uno scenario già ben delineato e preciso. Quello tracciato addirittura dal più alto consesso della Cassazione, le Sezioni Unite penali, che, con una sentenza del 2006, avevano affermato come le disposizioni sulla esecuzione delle pene e sulle misure alternative alla detenzione non fossero da considerare omogenee a quelle sulla irrogazione della pena e, quindi, non godessero del principio di irretroattività che riguarda solo quest’ultima. Salvo che il legislatore non avesse disposto altrimenti con apposita disciplina transitoria.

Norme processuali le prime, norme sostanziali le seconde. Le prime si applicano ai procedimenti esecutivi che sono ancora in corso al momento dell’entrata in vigore della legge e tali sono quelli che riguardano reati già commessi.

Un principio più che radicato fino a quel momento, si potrebbe dire granitico, dato che era stato seguito fino al 2019 da tutte le decisioni successive, sia pure con riferimento ad altre leggi, senza sensibili contestazioni.

Il silenzio del legislatore, sulla disciplina transitoria, non corrispondeva, comunque, ad una tecnica collaudata.

Infatti, nel 1991, quando era stato approvato il decreto legge (n. 152) recante provvedimenti urgenti contro la criminalità organizzata e, analogamente a quanto accaduto con la spazza-corrotti, erano stati introdotti nell’ordinamento penitenziario limitazioni e divieti di concessione dei benefici per i condannati in relazione a taluni reati particolarmente gravi, il legislatore aveva stabilito espressamente che quelle limitazioni operassero  solo per i fatti commessi dopo l’entrata in vigore del decreto legge. Allo stesso modo si era regolato una decina di anni dopo, nel 2002, con l. n. 279.

Passano gli anni e la tecnica legislativa anziché perfezionarsi, si fa pericolosamente meno attenta.

Nel 2019 il forte impatto della normativa contro la corruzione viene, dunque, lasciato, quanto alla possibile operatività anche per il passato delle norme sulla esecuzione della pena, agli operatori della giustizia.

E viene da domandarsi se, davvero, la scelta del legislatore di non formulare una norma transitoria, derogatoria per il passato, sia stata presa tenendo conto del panorama giurisprudenziale in cui si sarebbe calata. Perché in tal caso, del tutto probabile, l’omissione dovrebbe essere considerata consapevole, con quel che ne consegue in punto di assunzione di responsabilità politica. Basterà ricordare che l’ingresso in carcere di un noto politico condannato per uno dei reati in questione, perdendo il diritto alla detenzione domiciliare, fu accompagnato da commenti favorevoli di una parte della politica che la legge aveva voluto.

Certo è che la soluzione di applicare retroattivamente ai corrotti la regola della perdita dei benefici ha, infine, trovato opposizione e reazione proprio nei giudici chiamati a provvedere.

Questi hanno preso le mosse dalle più recenti sollecitazioni provenienti sia dalla Corte costituzionale che dalla Corte europea dei diritti dell’uomo e dalla Cassazione ed hanno chiamato in causa la prima per far dichiarare illegittima e quindi non più percorribile la interpretazione giurisprudenziale corrente, o come si dice tecnicamente, il “diritto vivente”, che privilegiava la opzione della retroattività.

Tenuto conto della presa di posizione fortemente critica da parte della stampa e dei commentatori contro i provvedimenti dei giudici che si erano regolati secondo la giurisprudenza consolidata, è utile, dunque, ricordare che, invece, proprio dall’ambito giudiziario è partita una nuova valutazione critica che ha portato al rovesciamento dell’orientamento precedentemente seguito.

Per prima la Cassazione con una sentenza di appena un mese dopo l’entrata in vigore della “spazza-corrotti” (n. 12541 del 2019), ma poi anche numerosi giudici di merito (undici sono le ordinanze di rimessione sulle quali si è pronunciata la Corte costituzionale) hanno sostenuto che la vecchia giurisprudenza, per quanto unitaria in punto di retroattività, non potesse più reggere il passo  con gli ultimi approdi della Corte europea dei diritti dell’uomo.

Perché non sarà inutile ricordare che anche le sentenze della Corte europea come quelle della Corte costituzionale per molti anni, ed almeno fino ai primi anni del 2000 non erano state affatto sfavorevoli alla applicazione retroattiva delle norme sulla esecuzione della pena, che anzi avevano giudicato non assistite dalla garanzia della necessaria prevedibilità.

Soltanto sei anni fa, nel 2013, la Corte europea, in una causa che riguardava la Spagna, aveva ribaltato la propria posizione ed affermato l’esatto contrario, con la sola eccezione fatta per le nuove leggi nazionali che si limitino ad apportare ridefinizioni della portata applicativa della norma penale già applicata dal giudice.

Ed è indubbio che questo mutamento “europeo” abbia avuto un ruolo fondamentale nella rielaborazione, in sede nazionale, della complessa materia in discussione.

In più, alcune sentenze della Cassazione, emanate proprio in applicazione della nuova legge, hanno affermato, in specifici casi, la non retroattività del divieto dei benefici ai casi di istanze presentate prima della entrata in vigore della legge. Hanno cioè preso le distanze dalla generalizzata interpretazione sfavorevole a coloro che erano stati condannati prima, ma a condizione che almeno avessero ottenuto la sospensione della esecuzione in modo da cristallizzare a quel momento il regime più favorevole a loro applicabile. Una parziale rimodulazione della ritenuta retroattività ai condannati per reati già commessi.

Ed allora sarà utile concludere con le osservazioni della Corte costituzionale che, in questo complicato sistema di richiami, ha dato applicazione al principio, ricavato da una lettura ampia dell’art. 25 della nostra Costituzione, e poi ribadito nelle fonti europee, secondo cui non può essere retroattiva la legge che determini più severamente la pena per un dato reato, rispetto al momento di commissione dello stesso. Non può esserlo perché fa parte dello stesso concetto di “stato di diritto” il limite, al potere politico, di stabilire pene non prevedibili al momento del fatto. Ognuno deve poter conoscere preventivamente le conseguenze che la sua trasgressione potrà comportare.

Con la precisione, peraltro, che se tale principio deve valere per le forme che sostanzialmente cambiano la natura della pena da scontare (affidamento in prova al servizio sociale, detenzione domiciliare, semilibertà, liberazione condizionale, divieto di sospensione dell’ordine di esecuzione), non altrettanto vale per i dettagli della esecuzione stessa, come i permessi premio o il numero delle ore d’aria e simili. Che continuano a non godere della irretroattività.

Ma la questione sulla spazza-corrotti non è chiusa qui. Infatti, la Cassazione ha anche rimesso alla Corte costituzionale, con ordinanza del giugno 2019, la valutazione sulla legittimità dell’automatismo col quale il legislatore ha imposto il sacrificio sui benefici penitenziari al nuovo catalogo dei reati contro la pubblica amministrazione (il caso è stato quello del peculato) anche con riferimento al futuro. Un automatismo che non è apparso giustificato dalla materia e che sacrificherebbe il principio costituzionale della proporzionalità e individualizzazione della pena.

Vedremo se la Corte costituzionale darà seguito a questa protesta di criticità, dovendosi dare atto, sin d’ora, che la sua giurisprudenza più recente è tutta incentrata sulla eliminazione degli automatismi e per la restituzione al giudice del potere di valutazione caso per caso.