Foto Rai Cultura
«Lo vedevo ogni giorno al bar per il caffè delle nove, e ve lo ritrovavo la sera, seduto allo stesso tavolo di marmo, con una sporta di libri accanto e una biro in allarme fra l’indice e il medio. Calvo, tarchiato, spiritato negli occhi, percorso ogni cinque minuti da un tic che gli elettrizzava la faccia. Febbrile lettore, s’interrompeva di quando in quando per ricopiare brevemente una frase su un notes, indi ricominciava. Un cliente senza nome, mi dissero, ma al bar lo chiamavano Robinson.
Un mattino seppi perché. S’era messo a piovere, non potetti uscire. Stanco di far da unico spettatore a due pensionati che giocavano a flipper, mi sedetti di fronte a lui, mi presentai. Non mi rese la pariglia, mi additò su un rotocalco fresco di stampa un titolo: “Torniamo a Matusalemme” e un sottotitolo: “la durata della vita umana s’allunga”. E come mi mostravo compiaciuto, squadrandomi fra indignazione e compatimento, così perorò: “S’allunga, e con questo? Prosit a tutti voi! Ma il vero vantaggio sarebbe se, viceversa, l’universo del conoscere si riducesse. A che serve codesta longevità, quando nella valigia del vostro cranio non sarete riusciti a stipare nemmeno la miliardesima parte dello scibile possibile? Un tempo bastava campare quarantanni e studiarsi la “Storia Naturale” di Plinio, e si poteva morire in pace, sazi di viste e visioni. Oggi sono tanti i libri, le scene, le pitture, le musiche, i visi, i cieli di terre lontane, e così magra la parte che ne tocca a ciascuno, da scoraggiare ogni intelligenza, ogni fame…”»
Gesualdo Bufalino, L’ingegnere di Babele.