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LE CITAZIONI: Dostoevskij. Il sottosuolo della memoria

Fëdor Dostoevskij

by Ernesto Scelza
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È la conclusione della seconda delle due parti in cui è suddiviso “Memorie del sottosuolo” di Fëdor Dostoevskij, in cui il protagonista confessa alcune azioni riprovevoli che ha compiuto nella sua vita, “a dimostrazione di come anche una persona ‘istruita’ e ‘a modo’ come lui possa essere in realtà profondamente abietta”. In una lettera del marzo 1864 al fratello Michail, Dostoevskij scrive: “Mi sono messo a lavorare al racconto. mi sforzo di scrollarmelo di dosso il più presto possibile, e, nello stesso tempo, di farlo venir fuori nel migliore dei modi… Deve assolutamente essere un bel racconto, sono io stesso che ne ho bisogno. Ha un tono troppo strano, un tono duro e crudele; potrebbe anche non piacere, perciò bisogna che la poesia ricopra e temperi tutto”.

 

«Ma… non è il caso di finirla, con queste “Memorie”? Mi sembra di aver fatto uno sbaglio, cominciando a scriverle. Per lo meno, ho avuto vergogna per tutto il tempo che ho passato a scrivere questo racconto: vuol dire che questa non è letteratura, ma una pena rieducativa. Mettersi a scrivere, per esempio, un lungo racconto sul modo in cui ho sprecato la mia vita, sul modo in cui mi sono corrotto moralmente, nel mio angolino, per insufficienza di frequentazioni, per mancanza di abitudine alla vita e per la vanitosa cattiveria che ho coltivato nel sottosuolo, Dio santo, non è interessante; in un romanzo ci vuole un eroe, e qui son raccolti, apposta, tutti i tratti di un antieroe, e il peggio è che tutte queste cose producono un’impressione spiacevolissima, perché noi, tutti noi, non siamo più abituati alla vita, siamo tutti zoppi, chi più chi meno. Siamo così poco abituati che sentiamo adesso, per la “vita vera”, una specie di repulsione, e non sopportiamo che ce la ricordino. Siamo arrivati al punto che la vera “vita vera” la consideriamo quasi una fatica, quasi come un lavoro, e siamo tutti d’accordo che è meglio se ci viene presentata nei libri. Ma perché ci agitiamo, a volte, perché facciamo i capricci, che cosa vogliamo? Non lo sappiamo neanche noi. E se i nostri desideri stravaganti venissero esauditi, staremmo peggio. Su, provate, su, dateci, per esempio, più indipendenza, sciogliete le mani a uno di noi, allargate il cerchio della nostra attività, allentate il controllo e noi… vi assicuro, noi chiederemo subito di tornare sotto il vostro controllo. So benissimo che forse voi vi arrabbierete con me, per quello che sto dicendo, griderete, picchierete i piedi, “Parli per lei,” direte “e per le sue miserie nel sottosuolo, e non osi dire tutti noi. “Chiedo scusa, signori, ma non sono io a giustificarmi con questo tutti. Per quel che mi riguarda, io non ho fatto altro, nella mia vita, che portare all’estremo quel che voi vi siete degnati di portare fino a metà, prendendo poi la vostra viltà per buonsenso, e consolandovi, così, e imbrogliandovi da soli. Sicché io, se non vi dispiace, sono ancora “più vivo” di voi. Ma state più attenti! Noi non sappiamo neanche dove si trova, quello che è vivo, e che cos’è, e come si chiama. Lasciateci soli, senza libri, e noi ci imbrogliamo e ci perdiamo subito, non sappiamo più a cosa attaccarci, a cosa appoggiarci, cosa dobbiamo amare e cosa dobbiamo odiare, cosa dobbiamo rispettare e cosa dobbiamo disprezzare. Facciamo fatica anche ad essere degli uomini, ad essere uomini con un corpo vero, nostro, con il sangue nelle vene; ce ne vergogniamo, lo consideriamo offensivo, e cerchiamo di essere una specie di uomo universale che non è mai esistito. Noi nati morti, già da un pezzo non siamo più messi al mondo da dei padri vivi, e questo ci piace sempre di più. Ci abbiamo preso gusto. Presto inventeremo il modo di nascere da un’idea. Ma basta; non voglio più scrivere “dal sottosuolo”.»

Fëdor Dostoevskij, Memorie del sottosuolo.

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