Azathoth è il Caos Primigenio, il Demone Sultano, il più antico e potente degli Dei Esterni, “il dio cieco che gorgoglia e bestemmia al centro dell’Universo”, ma ora farfuglia sul trono in stato di incoscienza. Lovecraft, maestro del racconto fantastico e dell’orrore, scrive “Azathoth” nel giugno 1922 e nel 1938 lo inserisce come racconto breve nei raccapriccianti “Miti di Cthulhu”.
«Quando il mondo invecchiò e lo stupore abbandonò le menti degli uomini; quando grigie città alzarono al cielo torri cupe e spaventose all’ombra delle quali nessuno poteva sognare il sole o i prati di primavera; quando la sapienza rubò alla terra il mantello della sua bellezza e i poeti non cantarono più, se non di fantasmi contorti e dagli occhi ciechi che guardavano solo dentro sé stessi… quando avvennero queste cose e le speranze della fanciullezza si furono dissipate per sempre, un uomo fece un viaggio oltre la vita e compì una ricerca negli spazi da cui i sogni del mondo erano fuggiti.
Poco si sa del nome e della famiglia di quest’uomo, perché appartenevano soltanto al mondo della veglia, ma si dice che fossero entrambi oscuri. Sia sufficiente sapere che viveva in una città dalle alte mura dove regnava uno sterile e perenne crepuscolo, e che lavorava tutto il giorno fra le ombre e il frastuono, per tornare a casa la sera e chiudersi in una stanza le cui finestre non davano su prati e campi, ma su un tetro cortile dove altre finestre dividevano la sua disperazione. Dall’appartamento non si vedevano che mura e finestre di altri palazzoni, a meno di non sporgersi pericolosamente per cogliere qualche stella di passaggio. E siccome un panorama d’infinite mura e finestre rende pazzo chi sogna o legge molto, l’inquilino della stanza si sporgeva ogni sera a guardare il cielo, per afferrare un frammento delle cose che stanno oltre il mondo e il grigiore dei grattacieli. Dopo alcuni anni imparò a chiamare per nome le stelle che passavano su di lui e a seguirle con la fantasia quando scomparivano alla vista; finché, alla fine, la visione si estese e fu in grado di percepire cose che l’occhio comune non sospetta. E una notte il grande abisso fu superato, i cieli stregati dai sogni premettero alla finestra dell’osservatore solitario e si mescolarono con l’aria della stanza, facendo di lui una parte del meraviglioso.
Scesero nella stanza rivoli di luce purpurea a mezzanotte, misti a polvere d’oro: vortici di fuoco e luce che filtravano dagli ultimi spazi e portavano profumi al di là dei mondi. Mari oppiacei si riversarono dalle finestre, illuminati da soli che l’occhio umano non vedrà mai e che portavano nell’abbraccio delle onde strani delfini e ninfe di immemorabili profondità. L’infinito si stese silenzioso intorno al sognatore e lo portò via senza nemmeno sfiorare il corpo che penzolava, tutto irrigidito, dalla finestra solitaria; e in un tempo che il calendario degli uomini non sa contare, le maree dell’infinito spinsero il visionario verso i sogni che desiderava, quelli che gli uomini hanno perduto. E per molti cicli lo lasciarono a dormire teneramente su una spiaggia verde illuminata dal sole; una spiaggia verde che profumava di fiori di loto ed era punteggiata di fiori rossi.»
Howard Phillips Lovecraft, Azathoth (trad. Giuseppe Lippi).