Eugenio Giani, presidente della Giunta Regionale della Toscana, che si predispone ad affrontare le urne fra poche settimane, dice che il Campo Largo funziona là dove governa. Non dice una sciocchezza. In realtà, come si vede dall’affluenza alle urne in tutte le ultime elezioni, comprese e ancor di più quelle ultime della Calabria, ormai va a votare una esigua minoranza degli aventi diritto al voto. In Calabria e nelle Marche sono stati poco più del 40%, meno della metà. E chi sono questi tenaci elettori?
Una volta i politologi dividevano l’elettorato in tre segmenti, grosso modo equivalenti per consistenza. Il primo costituito dal voto di appartenenza, il voto cioè di chi si sente membro di una famiglia politica, partecipe della sua ideologia, dei suoi valori, dell’idea di società che la caratterizza. Un secondo segmento è quello del voto organizzato, cioè di chi è integrato nel contesto del potere, nazionale o locale che sia. Questo elettore ha legami diretti o indiretti con chi governa, o magari con chi non governa ma potrebbe farlo, e ha un riferimento politico spesso personale con un leader, del cui giro in qualche modo fa parte. Quando ci sono le elezioni lui già sa per chi voterà, pur se certamente ci sarà qualcuno dell’organizzazione che glielo ricorderà. Infine il terzo segmento del corpo elettorale è costituito dall’opinione pubblica, cioè da quella parte dell’elettorato che non ha una particolare ideologia, oscilla a seconda del momento, dell’emozione, del vento che tira. Ora va a destra, ora a sinistra, ora al centro, non è legato né ideologicamente né organizzativamente ad una parte. Bene, per la lunga fase della democrazia, dal secondo Novecento fino ai primi due decenni di questo secolo, il voto d’opinione ha fatto la differenza. Le oscillazioni dell’opinione pubblica da una parte o dall’altra determinavano la vittoria di uno schieramento o dell’altro.
Ora la dimensione attuale dell’astensione dice che il voto d’opinione si è rarefatto. Ormai rappresenta poco. Forse perché coloro che non hanno un’opinione politica precisa non sentono neanche più il senso del dovere di partecipare, né hanno motivazioni particolari per recarsi alle urne. D’altra parte anche il voto di appartenenza, cioè il voto identitario politico, si è molto ridotto, specialmente a sinistra. La quale sinistra sta soffrendo, ormai dalla fine del secolo scorso, una fase di disorientamento, di smarrimento, di perdita della capacità di capire la società e di proporre una visione convincente per il suo miglioramento.
Meno incidente è invece questo fenomeno a destra, la quale anzi nel quarto iniziale di secolo ha ritrovato alcune delle sue ragioni ideali, sia sul versante sovranista che su quello liberale. Ma, in fin dei conti, anche a destra il voto d’appartenenza non conta più come una volta. Vale per tutti, in misura diversa, ma per tutti. Basterebbe vedere il numero di iscritti ai partiti oggi e confrontarli con gli iscritti ai partiti del secondo Novecento. Siamo a distanze abissali.
Resta il voto organizzato, il voto cioè di quei gruppi che sono legati a un vertice personale o politico che gestisce o che ambisce a gestire il potere. Se vince il loro referente politico, ce ne sarà anche per loro. Per costoro il problema non è se le idee sono giuste o sbagliate, ma se si vince o si perde. Ebbene questo è il grosso che è restato del voto. Se da quel 40, 45 o 48% circa che va a votare scartiamo un 20-25%, residuale dei voti di appartenenza e d’opinione che si distribuisce tra le vecchie famiglie ideologiche, sarà il voto organizzato a determinare l’esito delle urne.
Sotto questo rispetto ha ragione Giani a dire che il campo largo funziona bene, elettoralmente, dove sta al governo. Vale anche per la destra. È la vecchia saggezza di Andreotti, il potere logora chi non ce l’ha.
Detto questo, va fatta una considerazione aggiuntiva.
Analizzando la settimana scorsa il voto nelle Marche, avevamo osservato come i voti di lista dei vari partiti grosso modo corrispondevano alle stime nazionali che i maggiori istituti di ricerca di sondaggi attribuiscono alle varie liste. Quasi che le Marche fossero un’Italia in miniatura.
Ecco, nel voto della Calabria, scontata l’annunciata vittoria di Occhiuto e l’altrettanto annunciata sconfitta di Tridico, c’è invece un grosso scostamento tra i dati di quella regione e le stime dei dati nazionali che vengono attribuiti ai partiti nazionali. Nazionalmente, i moderati di destra, diciamo di Forza Italia, vengono stimati fra l’8 e Il 9%. In Calabria invece, se mettiamo insieme i voti di Forza Italia, di cui Occhiuto è vice segretario nazionale, quelli della Lista Occhiuto Presidente e anche quell’uno per cento di Forza Azzurri, arriviamo al 32%. Mentre Fratelli d’Italia, che nazionalmente è stimata intorno al 30%, ha avuto l’undici e mezzo. Solo la Lega nel centrodestra si è attestata sulle stime nazionali, poco più del 9%. Al 32% di Forza Italia, Occhiuto Presidente e Forza Azzurri sommati, va poi aggiunto anche un altro 13%, quello di Noi Moderati e della Democrazia Cristiana. Nel suo insieme, il fronte moderato della destra liberal-democratica ottiene addirittura una maggioranza di oltre il 50% di chi ha espresso il voto in Calabria. È un dato di notevole originalità rispetto al resto d’Italia.
Va anche detto che il candidato Presidente della Calabria del centrosinistra, Tridico, indicato dal Movimento 5 Stelle che in Calabria aveva avuto negli anni dell’esplosione del boom grillino dei risultati strabilianti, quel Tridico che era stato il promotore principale del reddito di cittadinanza e lo riproponeva ora come promessa elettorale ai Calabresi, si è dimostrato poca roba. Tutta la narrativa sui meridionali che vogliono solo soldi, assistenzialismo, eccetera è andata in fumo. Con essa è andata in frantumi anche la speranza della sinistra non grillina di far propri i temi del reddito di cittadinanza pur di racimolare un po’ di voti in più.
Tridico con la sua lista, Tridico Presidente, più quella del Movimento 5 Stelle ha preso il 14%. Non disprezzabile per un Movimento 5 Stelle che nelle Marche non aveva raggiunto il 5%. Tutto sommato il 14% indica che delle radici ci sono in Calabria, ma niente di che. Il Pd non ha raggiunto il 14%, ha preso il 13 e mezzo. Poi possiamo aggiungervi il 5% dei Democratici e Progressisti, forse uno spin-off del PD, comunque fa meno del 20%. Alleanza Verdi e Sinistra ha avuto il 4%, quanto si porta dietro da qualche anno a questa parte. Tutto quello che c’è stato, manifestazioni per Gaza, mobilitazioni varie, proteste di tutti i generi, non si è tradotto nemmeno in minima misura in una crescita del consenso elettorale verso AVD. C’è stato infine l’esordio in una elezione di una certa consistenza, quali possono essere le elezioni regionali, di Casa Riformista che è andata in maniera abbastanza mediocre, il 4,4%.
Quali ricadute avranno questi risultati sulle prossime regionali di Veneto, Toscana, Puglia e Campania?
I riflessi sullo stato d’animo dei rispettivi contendenti sono rilevanti. Per quanto riguarda il centrosinistra, perdi le politiche; promuovi i referendum, ci vai alla garibaldina e prendi una batosta; giochi la partita delle Marche e ne prendi un’altra; tenti il riscatto in Calabria e ancora un’altra. Batosta dopo batosta sminuisce la tua autostima e si creano problemi interni al tuo schieramento. Viceversa, vittoria dopo vittoria, aumenta l’autostima dell’altra parte.
Succede così, esattamente come nel calcio, che è una vera metafora della politica. La squadra in campo sta al calcio come il gruppo dirigente di un partito sta alla politica. I tifosi sono gli elettori. Il leader del gruppo dirigente nel calcio è in genere l’allenatore. Lui può avere un’idea geniale di calcio, degli schemi nuovi, innovativi, oppure tradizionali ma efficaci, e anche dei discreti giocatori. Ha fiducia in sé e alimenta le attese. Poi la squadra perde la prima partita, alla seconda le busca, va alla terza e ancora una batosta. Hai voglia di dire che però le prestazioni sono positive, partita dopo partita, batosta dopo batosta, i tifosi si insolentiscono, incominciano a fischiare i calciatori e a chiedere il cambio dell’allenatore. Lo spogliatoio si spacca e perde lo spirito di squadra. E quella squadra che casomai le successive partite avrebbe potuto pure vincerle si smarrisce e finisce per retrocedere.
Nel campionato della politica avviene qualcosa del genere. Ora inizia il dissenso interno allo spogliatoio del Campo Largo. È evidente che essendoci quattro partite a stretto giro – Toscana, Veneto, Puglia e Campania – non puoi cambiare allenatore mentre stai giocando. Però nel calcio, alle prime pause del campionato, le squadre in crisi cambiano l’allenatore. Può succedere anche nel Campo Largo.