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Pompei. Domenico Fontana la scoprì nel Rinascimento e tacque per opportunismo.

by Federico L. I. Federico
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Gli ultimi numeri sul turismo internazionale in Italia danno Pompei saldamente tra le mete archeologiche più frequentate e famose.

Inoltre, il rifiorire delle “scoperte” pompeiane – sebbene del tutto casuali e legate al risanamento geologico e idraulico dei “fronti di scavo” – hanno alimentato un nuovo interesse verso Pompei.

E’ infatti straordinario l’interesse che il mondo intero nutre per la “città sepolta” per antonomasia nell’immaginario collettivo.

Noi aggiungeremmo però: sepolta, ma non dimenticata.

E’ un dato condiviso ormai il fatto che all’eruzione vesuviana del 79 d. C. seguì la devastazione e l’oblio, ma non la totale scomparsa della Pompei romana. La città rimase in vista al di sopra della coltre vulcanica con le parti alte dei propri edifici più possenti, come l’anfiteatro, fungendo anche da cava di pietre e marmi. E ciò valse per lunghi anni, per secoli, forse per ben oltre un millennio. Insomma, fin quando si poté depredarla agevolmente.  

La sua memoria silente e assopita, ma non morta, sopravvisse nella memoria collettiva. Tanti furono infatti i poeti, gli storici, gli eruditi che ricordarono Pompei nelle loro opere. Per tutti indichiamo Jacopo Sannazaro che, nella sua Arcadia, pubblicata verso la metà del Cinquecento – cioè dopo circa quindici secoli dal suo seppellimento – ne descriveva le rovine emergenti.

Ma la storiografia “ufficiale” della scoperta di Pompei ha sempre sostenuto che fosse visione poetica. Invece Jacopo Sannazaro, già Poeta di Corte nella Napoli Vicereale, vedeva davvero con i propri occhi Pompei. Perché e come? Lo doveva al suo andare su e giù tra Napoli e Nocera Inferiore, dove si era ritirato nei possedimenti della moglie Masella Santo Mano, di una nobile famiglia salernitana. Jacopo in carrozza si dirigeva verso Napoli lungo la costa ai piedi del Vesuvio, rasentando la “Scodella”, come era chiamata allora la località ove apparivano i resti dell’anfiteatro pompeiano, di intellegibile forma ellittica. E poi la sua carrozza passava accanto al rilievo dove poi sarebbero stati scavati i Teatri e la Palestra dei Gladiatori.

Quindi Sannazaro non solo sapeva dove fosse Pompei ma ne vedeva emergere i monumenti dalle coltri vulcaniche vesuviane.

D’altra parte, soltanto qualche anno prima, nel 1536, il Topografo reale Pietro Lettieri ricordava nei suoi diari per la Corte Napoletana la antica “…città di Pompei, che era in quello alto che stà in fronte la Torre della Nonciata, et in detto locho ne appareno multi vestigj”. Più chiaro di così.

Ma ci pensò il Vesuvio con la immane eruzione del 1631 – seconda solo a quella pliniana per furia devastatrice – a seppellire definitivamente, e fisicamente, i brandelli della memoria di Pompei.

Il Vesuvio – facendo piovere sulla campagna pompeiana oltre due metri di materiale piroclastico – travolse tutto e tutti ancora una volta. E cancellò probabilmente anche il corso dell’Amnis Sarnus, detto il Fiumicello.

Esso era stato già impoverito pochi anni prima dal Canale voluto da Muzio Tuttavilla, Conte di Sarno e realizzato dall’Architetto Domenico Fontana in breve tempo.

La Storiografia pompeianistica compatta ci racconta che il Fontana incappò nella sepolta Pompei durante l’attraversamento in galleria della collinetta della Civita – ben individuata qualche decennio prima dal Lettieri – la quale la custodiva da quindici secoli.

Ma il Fontana non diede rilievo al fatto. O quasi. Ci domandiamo perché, visto che nel Rinascimento, come si sa, l’attenzione verso l’Antico era grande.

Inoltre, come abbiamo visto, presso eruditi e “antiquari” era ancora coltivato il nebbioso ricordo di Pompei, città romana distrutta dalla collera divina, come le bibliche Sodoma e Gomorra.

I motivi del silenzio di Domenico Fontana sulla scoperta della città sepolta furono di ben altro genere. Un opportunismo salvifico guidò la condotta dell’Architetto. Egli era stato accusato di sperperi e ruberie a Roma, ove aveva operato come architetto e imprenditore. Forse con poca trasparenza.

E già era scampato alla collera papale, rifugiandosi presso la corte Napoletana. Domenico Fontana non aveva quindi nessuna voglia di provocare un incidente diplomatico, tirandosi addosso anche l’accusa di riscopritore della Gomorra vesuviana, in tempi di inquisizione.

Ci furono però storici e “antiquari” che – dopo la costruzione del canale Sarno – affermarono fuori dal coro la presenza di un canale arcaico abilmente sfruttato da Domenico Fontana per farvi transitare le acque del Canal Sarno in costruzione. Un fatto di dimensioni ciclopiche per il revisionismo della storiografia pompeianistica.