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Un anno dalla Milano che non si vuole più bene

by Luca Rampazzo
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Se pensiamo a come è iniziato (le violenze in piazza contro delle ragazzine festanti), questo 2022 non ci mancherà. Se pensiamo a come sta finendo, con un milione di contagi al giorno in Cina, un po’ ci spiace lasciarlo. Di sicuro l’anno che si chiude, per Milano, è stato quello delle promesse mancate. Dovevamo avere una città verde, ci ritroviamo un Comune al verde, pronto a far cassa su chi non inquina (aumentando i biglietti dei mezzi pubblici per la terza volta in tre anni). Dovevamo avere una viabilità nuova di zecca, ci ritroviamo con il conto implacabile dei veicoli che arrivano dai paesi e dalle città limitrofe: 700mila. Una enormità che, in teoria, da aprile dovrebbe sparire in forza della limitazione di traffico più dura della storia, Area B.

In pratica, esattamente come le cento persone che fumano sotto il cartello di divieto, ci sentiamo piuttosto pessimisti pure su questo. Ecco, forse questa è l’aria che si respira, dopo un anno di rinascita e di amnesia. La saggezza orientale, infatti, ci insegna che non ci possa essere rinascita senza amnesia. E Milano, unica forse tra le città Italiane, la memoria la vive male. Così un 2023 che si apre con un brutto dejà vu, con i tamponi a Malpensa, parte col piede sbagliato.

Però non è tutto fosco quel che è coperto dalla scighera. Nel 2023 entreranno nel vivo i lavori per Cortina, si voterà per le Regionali, le week torneranno ai livelli del 2019. Pandemia permettendo. Insomma, Milano è resiliente, qualsiasi cosa questo vocabolo voglia dire. E non vi passi per la testa di chiederlo ad un Milanese. Vi trascinerebbe in un labirinto di anglismi fine a se stessi fino a stordirvi. Di sicuro, però, quel popolo mitologico, nato rigorosamente altrove, ma oriundo nell’anima, nelle maniere, nello spirito un po’ di simpatia la fa.

La fa perché è l’ultimo fazzoletto di Italia che ancora immagina. Sognare, sogniamo tutti. Sperare, sperano in molti. Ma immaginare, creare, veder nascere sta diventando la cifra di questa terra paludosa nei piedi e velata nel capo. E forse le vogliamo bene, noi immigrati e falsi Milanesi (che poi sono gli unici autenticamente tali), proprio per questo. Perché anche i capodanni che guardano un anno di cui non si fidano, caricano l’osservatore di emozione e anticipazione. Non c’è romanticismo, ma c’è molta fame. Una città eternamente a dieta, che si sfama di apericena a prezzi da ristorante stellato è il proscenio ideale per un italico “stay hungry, stay foolish”.

Siate affamati, siate fessi. Forse Steve Jobs non è stato Stefano Lavori perché dette in inglese anche le fesserie suonano meglio. E, dopotutto, probabilmente è questo che noi Milanesi abbiamo capito. Viviamo in una nazione di canzonette, mentre fuori c’è la morte. Abitiamo una città che ha capito che per dire la verità, ci vuole una lingua diversa dall’Italiano.

E quindi Happy New Year. Pronunciato rigorosamente come il Dogui. Perché qui, gli anni ’80, non sono mai davvero finiti. E forse è meglio così.