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Angololettura. Pagina seicentoundici

by Piera De Prosperis
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L’ autore del brano che vi proponiamo è Marco Lodoli, un insegnante/scrittore/giornalista che indirettamente parla in questo racconto del suo lavoro a scuola. Di come sia frustrante insegnare a giovani distratti da altro, distanti da quella cultura che vorremmo versare nelle loro teste. Eppure non tutto è perduto…

Ieri il professore d’italiano è entrato in classe con la faccia dei giorni scuri. La ricreazione non era ancora terminata, ma lui ha gridato mettetevi seduti e state zitti. Posso finire di mangiare la pizza? ha chiesto Robbioli, e il professore ha detto di no. Poi ha aggiunto: è morto Moravia, stamattina alle nove. Il professore spesso ha delle pretese esagerate, non si rende bene conto che questo è l’istituto tecnico Marcheggiani, crede che noi sappiamo molte cose di quelle che interessano solo a lui. Ogni tanto ci fa scrivere su un quaderno un elenco di libri che dobbiamo leggere – li dovete leggere assolutamente, sono opere fondamentali – così lui detta e noi scriviamo la formazione della Roma. Insomma, solo Laura e Giorgio sapevano chi era Moravia uno che ha fatto romanzi. Il professore ci ha ripetuto ancora una volta che siamo delle bestie e non ci meritiamo niente. Siamo nati capre e moriremo capre. Ci boccia tutti. Gli facciamo pena per quanto siamo capre. Sempre le stesse cose ripete, gli si gonfia il collo mentre le grida. Poi ha detto a Laura di aprire il Salinari-Ricci a pagina seicentoundici e di leggere a voce alta. «Alberto Pincherle, in arte Moravia, nacque nel 1907 a Roma da famiglia ebrea benestante. Ammalatosi di tubercolosi ossea all’età di nove anni, dovette rimanere inattivo fino quasi a diciassette anni, passando di sanatorio in sanatorio…» Era gobbo come Leopardi? ha domandato Robbioli. So’ tutti gobbi gli scrittori, ha detto Finzi, per questo so’ scrittori. Laura allora s’è interrotta e ha detto ce lo racconti lei, professore, questo Moravia, che a leggerlo sul libro non ci si capisce niente. Il professore ha alzato la testa dal giornale e ha ordinato a Laura di continuare a leggere, che meglio del Salinari-Ricci non può spiegarlo nessuno, e che lui, il professore, ha un calo di voce e non deve sforzarsi. Io a orecchio ho seguito Laura fino al primo libro di Moravia, intitolato “Gli indifferenti” e scritto dall’autore all’età di diciannove anni, che è l’età mia, poi mi sono perso. Ma insomma de che parlano ‘sti libri de Moravia, ha chiesto Lunati, e il professore gli ha spiegato che questa è una domanda assurda, che i romanzi non parlano di una cosa o di un’altra, che nei romanzi la storia non conta niente. E che conta, allora? E lì il professore ha fatto un gesto vago sopra la testa: contano le idee, capito Lunati, le idee e lo stile. E che so’ le idee, io non ce l’ho le idee, però me succedono un sacco di cose, anche questa estate, anche ieri pomeriggio. Laura, ha tagliato corto il professore, continua a leggere, che è meglio, vai dove parla della “Romana”. Allora Finzi ha detto che la “Romana” lui l’ha vista in tivvù, con la Dellera, ed era un film da buttarsi dalla finestra a ogni puntata. Così il professore s’è arrabbiato ed è uscito in corridoio a fumarsi una sigaretta, e Robbioli s’è ripreso la pizza da sotto il banco, e tutti ci siamo messi a ripassare fisica.

Da quando ci siamo baciati per la prima volta, da metà aprile cioè, il pomeriggio io esco sempre con Mirella. Abbiamo voglia di vederci, ma non sappiamo mai che fare, dove andare a sbattere la testa. Mirella s’accontenta, dice che l’importante è passare le ore insieme, che a lei le basta. Forse quando avrò la macchina sarà meglio, perché con la macchina uno gira, gira e il tempo trascorre facile. Talvolta andiamo a Cinecittà due a guardare i negozi, oppure in via del Corso, o anche alla Rinascente. Mirella mi dice: ti piace quella gonna, costa pure poco. Io rispondo: sì, è bella, e passiamo alla vetrina seguente. Mirella è una ragazza romantica, un po’ all’antica, tant’è che ancora non sono riuscito a portarmela a letto: quale letto, poi, non si sa. Il letto del prato alla Bufalotta. Quando avrò la macchina sarà diverso. Comunque a lei piace soprattutto andare al Campidoglio a vedere i matrimoni, tre, quattro di fila, che lì vanno via veloci. Le piacciono gli sposi che si baciano con rispetto, i vestiti fiammanti, le mamme che starnazzano, la gente ammucchiata per le fotografie, le macchine lucidate, tutto quello spettacolo lì, che a me sembra il circo Togni. Certo in chiesa, dice Mirella, è molto più bello, col crocefisso e l’organo, ma al Campidoglio si è sicuri di trovare sempre un bel po’ di sposi. Anche oggi siamo saliti su per quella scalinata, perché non avevamo nessun altro programma. Io ci vado come se andassi a rubare, sperando che nessuno mi veda. Il primo matrimonio era tra una donna bella formosa, che scoppiava dentro un vestito bianco e giallo, e un ragazzo che pareva un cerino spento. Al secondo matrimonio due parenti se le sono date di santa ragione, in un angolo della piazza. A un certo punto si sono rotolati per terra, con la camicia bianca fuori dai pantaloni, tirandosi per le cravatte. Io ho detto a Mirella: tu resta pure qua a goderti i prossimi sposi, io vado a fare quattro passi. Volevo arrivare all’affaccio sul Foro, da dove si dominano benissimo tutte le macerie antiche, per vedere se c’era qualche gatto veramente grosso. Lì in mezzo alle pietre ci sguazzano, i gatti, ce ne sono alcuni da dieci chili. Ma prima di arrivare alla ringhiera, là dove un’altra scalinata sale verso una grande porta a vetri, ho visto un gruppo di persone con la testa bassa e l’aria bastonata, i vestiti scuri. Ho pensato a un matrimonio andato a monte, allo sposo fuggito un attimo prima di dire sì, al pranzo già pagato che attendeva in qualche ristorante. Altre persone salivano la scala a passo lento, senza parlare. Allora ho voluto capire meglio, e li ho seguiti dentro a quel palazzo.

Al centro di una sala immensa c’era un uomo vecchio e morto, vestito bene, con le mani incastrate una nell’altra sopra la pancia. Io non avevo mai visto un morto in vita mia, neanche mio padre ho voluto vedere, tanti anni fa. Quel morto aveva l’aria di uno che sta pensando a cosa è meglio fare, giunti a quel punto. Chi è? ho chiesto a un ragazzo che aveva un fascio di giornali sotto il braccio. È Moravia, mi ha risposto brusco. Moravia lo scrittore? Certo. Pagina seicentoundici, ho ricordato, e non ricordavo nient’altro. C’era un silenzio enorme in quella sala. Un uomo si è avvicinato alla bara scoperta e ha mormorato qualche parola, forse una preghiera. Un altro gli ha toccato la fronte, e ho sentito una ventata di freddo nelle ossa, come quando d’improvviso viene la paura e dà la scossa. Su una sedia una donna bionda piangeva tenendo un bastone da passeggio tra le mani. Il soffitto m’era parso altissimo, le pareti della sala lontanissime, mentre anch’io mi avvicinavo a quell’uomo, a Moravia. Non ricordavo nemmeno come si chiamava di nome. Franco Moravia, Gianni Moravia, Luca Moravia. Io mi chiamo Alberto, e così gli ho regalato il mio nome: Alberto Moravia, suona bene. E poi mi sono reso conto di come non so nulla, io, della vita e di cosa bisogna dire e pensare in certi momenti, che parole usare, che faccia, anche se sentivo i brividi nella schiena a guardare quel viso così definitivo, quelle sopracciglia bianche e folte come cespugli che non possono più nascondere. Chissà quanta gente s’era sposata, nel frattempo, che pianti che s’era fatta Mirella. Quante donne incinte, quanti ragazzini nelle pance o appena fuori, coi calzettoni già scesi sulle caviglie e il naso che cola. Quante indimenticabili fotografie, e i confetti. Ma prima di tornare al mondo io volevo dire qualcosa, a quell’uomo così bello, anche una cosa sola, ora che gli stavo a mezzo metro. Pagina seicentoundici, gli ho mormorato, e di corsa sono scappato fuori, per non vederlo sorridere, di me.

Tratto da: Boccacce, di Marco LODOLI, Genova 1997.

Per motivi assolutamente personali, in un percorso soggettivo e sconosciuto agli altri, uno di questi studenti elabora a modo suo un pezzetto di quella cultura che dall’alto aveva rifiutato di ricevere.

Laura allora s’è interrotta e ha detto ce lo racconti lei, professore. In questa frase c’è tutto il bisogno di sentirsi guidati da una persona adulta e consapevole in un rapporto umano diretto. Forse se il professore avesse usato parole sue, se non avesse imbalsamato nel manuale l’artista morto, forse più ragazzi si sarebbero incuriositi e avrebbero partecipato. In epoca di DaD (Didattica a distanza), questo racconto può farci riflettere su come sia necessario avere la giusta misura nell’uso degli strumenti didattici in remoto. Siamo in emergenza, certo, ma il docente in carne ed ossa resta una figura insostituibile. Qualche giorno fa ci ha lasciato Sepulveda, quanti ragazzi lo conoscevano, quanti avrebbero avuto bisogno di un accompagnatore che li conducesse all’ideale Campidoglio in cui piangere la salma dello scrittore!