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Calipso

by Maria Lucia Cioffi
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Lei viveva in una grotta profonda, dimenticata da tutti, uomini e dei. In quella grotta, che non si può chiamare casa, c’erano giardini rigogliosi e fertili, sorgenti di acqua limpida. Un mondo si apriva in quell’antro, ma nessuno lo conosceva.

Solo lei.

I miti raccontano che si trattava di una dea, una ninfa, ma le sue giornate trascorrevano come quella di qualsiasi altra donna: tesseva, cucinava, versava vino, puliva vestiti. Cantando.
Tutto ciò che faceva era accompagnato dal suo canto. Quello si, divino. Aveva superato la fase della ribellione ed era giunta a quella della stanchezza, che aveva lentamente interiorizzato e abbracciato andando oltre. Accettava ora con quieta rassegnazione la sua condizione. La solitudine, il silenzio – ovunque intorno a lei – e il futuro che l’attendeva. E quindi cuciva, beveva, mangiava, filava, puliva, rassettava.

Cantando.

Lei era bellissima – come qualsiasi altra ninfa – come dicono i testi appariva come una “giovane donna vergine in età da marito”. La sua pelle ambrata e liscia, i capelli lunghi e mossi, ormai dimenticati e portati raccolti dietro la nuca. Il volto. Le labbra sottili e rosa, i tratti quasi soltanto accennati e gli occhi, profondi intensi enormi neri lucidi tristi. Erano anni ormai che non indossava abiti, ma solo stoffe che si adagiavano sulle linee del suo splendido corpo, tenute ferme da lacci o corde. L’indispensabile per non essere nuda. Nonostante l’assenza di occhi indiscreti, le piaceva coprirsi per poi rimanere libera dai veli quando giungeva la notte. Al calar del sole lasciava scivolare via i panneggi colorati e si guardava allo specchio per qualche minuto. Poi, dopo aver cercato attentamente qualche segno di cambiamento, si adagiava nel suo letto per riposare. Da sola e nuda. Ah, quante notti aveva sognato di avere di fianco il corpo di un uomo, di poter sentire il calore del suo respiro nel sonno. Aveva abbandonato anche i sogni.

Lei era una dea. Splendida nei natali e nel portamento. Capace di far scendere gli dèi dall’Olimpo e di far impazzire i mortali con un solo sorriso accennato.

Lei era Calipso.

Ed era sola.

Il tempo trascorreva senza passare davvero, non contava i giorni o le ore e nemmeno gli anni. Il suo nutrimento era nettare degli dèi, sarebbe vissuta per sempre e quindi non aveva senso scandire in ore la sua forzata prigionia. Ma quella notte un rumore sconosciuto la fece svegliare. Forse stava avendo un incubo. Sudata e come sempre nuda, si alzò a sedere al centro del suo talamo, i capelli ancora raccolti ma bagnati della sua agitazione. Di nuovo quel rumore. Afferrò distrattamente uno dei suoi veli diurni e corse fuori dalla grotta verso la spiaggia. Il vento le asciugò la fronte bagnata e le restituì un po’ di lucidità. Cos’era? I piedi affondavano nella sabbia fresca quando vide cosa stava accadendo. Più in là, a largo, un’enorme bestia di legno veniva squarciata dalle onde violente. Poseidone doveva essere piuttosto arrabbiato con quei marinai. Le vele bianche erano ormai ridotte a piccoli lembi di stoffa squarciata, la polena alla guida degli sventurati completamente distrutta, i remi impazziti tra le onde. Un flutto quasi nero portò l’imbarcazione nel punto più alto che avrebbe mai potuto raggiungere e poi sembrò scomparire all’improvviso; la nave si trovò senza appoggi e guide, cadde come nel vuoto sul mare e il rumore sembrò quello di uno schianto sulla terra.

A volte sa essere così spietato il mare, a volte sembra poter inghiottire qualsiasi cosa. Che Poseidone stava forse andando a prendere lei? A illuminare la collisione un fulmine mostrò il legno andare completamente in pezzi, tantissime schegge invasero e ferirono il mare dopo di che, tutto fu pace. Le nuvole lentamente si dispersero lasciando la notte alla sua abituale serenità, le onde si appiattirono su se stesse e il vento smise di sollevare la sabbia tagliente. Lei aveva visto il potere degli dèi, quelli veri, e di nuovo ne aveva avuto paura. Ma il dio dei mari non era riuscito ad inghiottire ogni cosa, perché lì sulla riva bagnata, un’onda gentile regalò a quell’isola un uomo. Svenuto. Nudo. Bellissimo. Un mortale. Calipso ebbe paura. Di un mortale più che dell’ira divina. Sapeva, intuì, che quell’uomo sventurato sarebbe stato la sua rovina.

E adesso? Che fare? Il corpo vivo ma privo di volontà steso sulla sabbia. Lo guardò solo un attimo, i muscoli definiti e la pelle abbronzata, la barba piena dei colori della terra. Non riuscì a resistere e senza pudore Calipso si stese di fianco al mortale, appoggiò il suo divino corpo a quello abbandonato alle onde leggere. La sua veste faceva da contorno a quell’unione segreta e rubata; sembrava fossero distesi su un talamo dopo la fatica dell’amore, che lei non conosceva. Avrebbe dovuto lasciarlo andare al mare, nascondersi e lasciare che il destino decidesse sul da farsi, ma era troppo bello per rinunciare. Rimase lì ferma a proteggerlo tutta la notte poi, con le prime luci, pianse di gioia per quella splendida oscurità che aveva finalmente condiviso e si ritirò in casa, facendo trasportare dalle ancelle il marinaio. Fu preparata per lui una stanza, pelle di pecora ad accogliere e scaldare la pelle bagnata, candele e profumi a riempire l’aria, vino e carne ad aspettarlo. Calipso sciolse i suoi capelli, di nuovo, finalmente, e seduta tesseva e cantava. Lui tornò al tepore e aprì gli occhi; indossò la veste lasciata lì, bevve un sorso della rossa bevanda e sentì. Un canto dolce e melodico, come miele gli toccava le orecchie e l’anima. Aveva viaggiato e visto molte cose, ma mai aveva udito un tale suono prima, neanche le sirene lo avevano raggiunto tanto a fondo. Abbandonò la stanza e trovò la voce. Una donna. Guardandola capì che sarebbe stato difficile separarsi da lei. Lo capì immediatamente. L’avrebbe amata senza limiti. L’amava già.

All’apparizione dell’uomo Calipso interruppe il suo canto e si ritrovò imbarazzata come una piccola mortale.

– No ti prego, continua. Il tuo canto mi ha riportato in vita e temo che nient’altro possa rubare la mia anima alla profondità dell’incoscienza. Mia dea, ti prego, non smettere. Mai. –

Una semplice richiesta e tutto si colorò di una tinta calda nel cuore della ninfa. Riprese il suo canto ma abbandonò la filatura. Alzandosi, lenta e morbida nei movimenti, fissò il suo sguardo negli occhi del marinaio e lo raggiunse. Ad ogni passo l’uomo iniziò a tremare, incapace di controllare il proprio corpo, e la donna ad acquisirne potere; riusciva a vedere negli occhi bruni che la desiderava e questo la rendeva potente come Giunone. Accostò la sua bocca al viso coperto di barba, una ciocca di capelli di seta gli sfiorò una guancia e lì, su quella ciocca dorata, l’uomo lasciò la sua ragione e ogni traccia di buon senso. Se aveva avuto intenzione di parlare non possiamo saperlo, perché il marinaio non ascoltò più neanche il canto divino, ma la circondò con un braccio e l’attirò a sé. Solo un sospiro emise Calipso, ma non mostrò alcuna opposizione e lui, senza grazia, la privò dei suoi preziosi veli lasciandola completamente nuda. Bellissima. Perfetta. Non poté fare a meno di guardarla per qualche secondo: i seni piccoli e tondi imperavano su quella splendida figura, i capezzoli piccoli e rosa, delicati oltre ogni immaginazione si muovevano a ritmo del respiro ormai affannato, più giù la linea della vita e poi del ventre sembrava una conchiglia che contenesse una perla rara e infine, le cosce lunghe e solide a proteggere il suo centro – anch’esso dorato – e a reggere il peso di tanta bellezza. La sollevò con foga ma rispettandone il corpo, la condusse lì dove si era risvegliato e la fece sua in molti modi e tante volte. Non poteva che essere un’illusione, tanto piacere non era concesso ai mortali. E lei d’altronde pensò che poteva essere solo un dio travestito da mortale. Entrambe erano in errore. Nessuno dei due sapeva che la magia compare nei momenti inaspettati ed esplode nell’incontro di due anime che non si erano mai guardate e che finalmente ora si vedono. Lei si era fatta carne tra le braccia di lui.

– Qual è il tuo nome marinaio? Voglio conservarlo tra i miei capelli per quando andrai via –

Distolse lo sguardo dalle natiche perfette e la guardò come lei aveva fatto prima, fisso negli occhi e potente.

– Il mio nome, mia dea, è Ulisse. E non ho alcuna intenzione di andare via. –

Il tempo trascorse. Ulisse e Calipso fecero l’amore ad ogni alba e ad ogni tramonto. Bevvero insieme il vino più buono e bagnarono i loro corpi con l’acqua cristallina del mare pacato. Dopo un anno, una sera, la dea cucinò e cantò per il marinaio e, mentre riposavano alla luce delle candele, lei versò nella sua coppa dorata il nettare degli dèi. Ne bevve un piccolo sorso e senza proferir parola lo tese verso di lui. Quell’attimo durò un’.eternità, poi Calipso non resistette al silenzio.

– Bevi, Ulisse, e avrai l’immortalità. –

Gli occhi di lui divennero improvvisamente distanti

– No mia dea, ti ringrazio, ma ciò che anelo non è l’immortalità. –

– Cos’è che cerchi allora? – domandò lei.

– Ciò che desidero più di ogni altra cosa, è tornare nella mia terra, ad Itaca, da mia moglie e mio figlio –

La risposta così decisa le ghiacciò il sangue, strinse il calice fino a fracassarlo e lasciò la stanza.
Più volte dopo quella notte offrì la sua preziosa bevanda ad Ulisse e lui mai l’accetto; ma ogni volta che gli poneva quella domanda, lui passava un’ora in meno nel suo letto, fino a quando rare diventarono le occasioni in cui il suo letto l’ospitò. Tornò ad essere sola Calipso, forse perché aveva osato troppo.

E infine, passati sei anni, Ulisse smise quasi di mangiare e del tutto di condividere le notti con lei, passando le sue giornate sul punto più alto della costa.

Guardando l’orizzonte infinito, piangendo la terra lontana, sognando i baci della sua Penelope.

Sette anni infine passarono. Ulisse sempre lontano, in alto sulla roccia, la pelle sempre più scurita dal sole delle lunghe giornate, lo sguardo sempre più vuoto e triste. Lo amava come mai aveva amato prima, ma ormai aveva smesso di chiedere. Prima di dormire Calipso lo osservava a distanza e sussurrando cantava per lui, finché il marinaio crollava stremato dall’immobilità.

Una mattina giunse alle porte del suo antro un ragazzo bellissimo, il fisico e il portamento di un principe, gli abiti di seta. Odorava di Olimpo e non si sbagliava. La ninfa tesseva e il dio Ermes le si sedette di fronte.

– Mia dea, il padre di tutti noi ha parlato e comanda di lasciare libero Ulisse –

– Ma io, mio amato Ermes, non tengo prigioniero nessuno. Ulisse è libero di lasciare queste terre quando vuole, nessun incantesimo è stato fatto, nessuna trappola, nessuna tela –

Il dio messaggero si alzò e raggiunse la finestra che dava sul vasto mare.

– Calipso, Ulisse non ha nave per lasciare la tua isola. Gli hai offerto il nettare degli dèi molte volte in questi ultimi anni, ma mai gli hai offerto neanche una zattera per tornare a casa –

La tessitura si interruppe bruscamente. Gli occhi della ninfa divennero di ghiaccio e sbarrati sul giovane. Il corpo rigido nell’alzarsi.

– E perché mai avrei dovuto? Mi avete confinato qui per sempre e ora c’è lui – il tono della voce divenne imperioso e altero, non parlava più con Ermes ma con Zeus direttamente – ho finalmente conosciuto la gioia di un cuore che mi ama e me lo vuoi portare via? Il mio letto è stato riscaldato dal suo corpo e ora vorresti chiedermi di riportarlo al freddo che tanto conosco e odio? –

Ormai i suoi sussurri erano diventate urla.

Il giovane dio non interruppe la sua ira, ma quando le parole terminarono l’abbracciò. Calipso scoppiò in lacrime amare e lui, accarezzandole i capelli, le sussurrò:

– Se non riesci a lasciarlo andare per amore, fallo per paura che mai Ulisse te lo perdonerebbe ma fallo, perché Zeus così comanda –

Quella stessa sera Calipso raggiunse il suo marinaio in cima alla costa, dove anche quel giorno aveva trascorso. Lui sembrò non vederla, lei si immerse nella sabbia con le ginocchia, posò la sua testa sulle gambe che tanto l’avevano stretta, chiuse i dolci occhi e disse:

– Mio amato Ulisse, il mio cuore è in pezzi nel sapere che non mi ami più. Vorrei che avessi accettato l’immortalità che più volte ti ho offerto, ma in fondo, non sarebbe giusto costringerti a una così grande condanna. È tempo che tu vada –

A queste parole Ulisse sembrò risvegliarsi da un sonno profondo

– Ho predisposto una piccola barca per te, poco più che una zattera, ma sii fiducioso, perché il mare non ostacolerà il tuo ritorno ad Itaca –

Gli occhi di Ulisse si riempirono di lacrime, gratitudine, incredulità e gioia. Non amore. La sollevò e la strinse a lungo, la baciò un’ultima volta. Il cuore di Calipso si fermò in quegli attimi e non riprese a battere davvero mai più. Voltò le immortali spalle e tornò nel suo rifugio.
Un’ora più tardi il marinaio stava salpando verso il proprio destino.
Calipso pianse e accompagnò Ulisse con il suo canto divino. Quando la barca era ormai invisibile sulla linea dell’orizzonte, interruppe la melodia.

Nessuno tornò più a trovare la ninfa, quindi di lei non si hanno altre notizie. Mi piace pensare che abbia promesso a se stessa che riprenderà il suo canto solo quando, e se, Ulisse, il suo marinaio, tornerà a stringerla.