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Il complesso militare-industriale dietro le guerre

by Pietro Spirito
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Nel suo discorso di commiato del 17 gennaio 1961, trasmesso per radio e televisione, il presidente Dwight Eisenhower avvertì il popolo degli Stati Uniti riguardo al pericolo costituito dal “complesso militare-industriale”. Queste parole, pronunciate oltre sessanta anni fa, sono cadute nel dimenticatoio. Mentre sono fioccate, durante gli anni della pandemia, le polemiche contro le multinazionali del farmaco, non una parola si leva ancora nei riguardi dei colossi dell’industria bellica, nonostante che siano chiaramente i maggiori beneficiari della guerra ucraina, e degli altri conflitti che si svolgono in giro per il mondo.

Si tende a rappresentare la tensione internazionale come la contrapposizione tra il revanscismo russo e l’alleanza occidentale, con una analisi esclusivamente politicista che tiene sullo sfondo gli interessi economici, che vengono limitati alle questioni energetiche. I produttori delle armi restano sullo sfondo, nessuno li cita nemmeno, mancano analisi serie sulla riorganizzazione del sistema di produzione bellico internazionale.

Eppure, da decenni è in corso un processo profondo di riassetto dell’industria militare, che peraltro è passata dalla sola produzione di armi anche alla organizzazione del servizio bellico mediante la formazione e la messa a disposizione di milizie mercenarie, che abbiamo visto all’opera in Iraq, Siria ed ora in Ucraina. Siamo in presenza di una geografia industriale complessa, con un settore popolato da aziende militari statunitensi ed europee che in teoria dovrebbero farsi concorrenza tra loro ma che, nella pratica, sono connesse l’una con l’altra attraverso un’intricata rete di partecipazioni societarie. E i cui azionisti, oltre agli Stati, sono i grandi fondi d’investimento d’Oltreoceano.

Chi si cela dietro le quinte di questi grandi nomi dell’industria militare europea? Innanzitutto, gli Stati. Il ministero dell’Economia e delle finanze italiano detiene poco più del 30% delle azioni di Leonardo; di poco inferiore (25,6%) la quota di Thales di proprietà del governo francese. Tra gli azionisti di Airbus ci sono il governo francese, quello tedesco (entrambi col 10,9% delle azioni) e quello spagnolo (4,11%). Più limitate le informazioni sull’azionariato di Indra Sistemas, ma spicca il 18,7% detenuto dalla Sociedad Estatal de Participaciones Industriales, controllata dal ministero del Tesoro iberico.

Gli incroci tra azionisti in diverse compagini sono molto frequenti. Dassault Aviation detiene poco meno del 25% delle azioni di Thales, ma è a sua volta controllata per il 9,9% da Airbus. E questo è soltanto uno dei tanti casi che, messi insieme, formano un groviglio in cui ogni società è vicinissima a tutte le altre.

Un ruolo strategico viene giocato dai grandi fondi di investimento americani. BlackRock, Vanguard, Fidelity Investments, Wellington Management e Capital Group comprano indistintamente quote delle aziende belliche del Vecchio Continente e delle loro concorrenti d’Oltreoceano. Per citare il caso più clamoroso, nelle loro mani c’è complessivamente il 13,77% di Airbus e il 13,86% della sua rivale Boeing. Oppure prendiamo BlackRock, il primo fondo a sfondare il tetto dei 10mila miliardi di dollari di asset gestiti. In questi 10mila miliardi ci sono quote di tutte e cinque le big dell’industria militare europea. Ma anche il 4,19% di Northon Grumman, il 4,77% di Raytheon Technologies, il 4,89% di Lockheed Martin, il 3,95% di Boeing e il 3,85% di General Dynamics.

C’è motivo di credere che questi intrecci proprietari incidano negativamente sulla concorrenza. E sappiamo bene come sono fatti gli oligopoli: poco trasparenti, inclini ad alzare i prezzi e fare lobbying sulla politica. Tutti attributi che, declinati sul settore delle armi, non fanno presagire niente di buono. Ma c’è anche motivo di credere che questi colossi industriali e finanziari incidano in modo molto significativo sulle scelte politiche degli Stati, oltre che sugli assetti diplomatici e sulla postura degli orientamenti geopolitici.

Anche sul versante russo il potere economico dell’industria bellica gioca un ruolo di primo piano. Il principale produttore di armi russo è il conglomerato Almaz-Antey, anch’esso figlio di “risistemazioni” volute da Putin. L’azienda si colloca nella Top20 delle maggiori compagnie di produzione militare al mondo. Tra i suoi prodotti troviamo sistemi di difesa e guida, missili da crociera, sistemi di navigazione, armi leggere, droni, artiglieria navale e terrestre. Insomma, il cuore vero della produzione bellica russa. Complessivamente stiamo parlando di un comparto industriale ed economico davvero cruciale per il Paese. Tra i 2 e i 3 milioni di occupati, forse il 20% di tutta la produzione manifatturiera della Russia. Complessivamente, l’industria bellica russa ha esportato, nel quadriennio 2016-2020, 20% delle armi su scala mondiale, seconda solo agli Stati Uniti, che hanno una quota di mercato del 37%.

La Cina, preceduta da Francia e Germania, raggiunge solo il 5,7%, in quanto la produzione per ora è rivolta quasi esclusivamente all’armamento interno.

Se si analizzano i dati sull’economia americana nel ventennio tra il 2001 ed il 2021 si scopre che in Borsa le azioni che hanno registrato i rialzi più consistenti sono quelle delle industrie belliche. Dai dati della Corte dei Conti americana, nei vent’anni della sola missione militare in Afghanistan gli Stati Uniti hanno speso 2mila miliardi di dollari. A questa spesa deve essere aggiunta quella per le altre guerre, come quella in Iraq, e per gli altri fronti su cui gli Stati Uniti erano impegnati militarmente. Si tratta di un business enorme che, dopo la fine del conflitto in Afghanistan, ha rischiato di registrare un drammatico vuoto. Ed è proprio della ricerca di nuove tensioni internazionali, se non addirittura di guerre come quella in Ucraina, che gli Stati Uniti hanno bisogno per tenere accese le fornaci delle industrie di armamenti.

Insomma, per avviare trattative di pace e per costruire un tavolo negoziale, forse bisognerebbe compulsare gli indirizzi delle multinazionali delle armi, cercando di trovare scenari economici alternativi alle loro strategie. La transizione bellica ed il percorso verso la pace, forse, si costruiscono così.