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Il Salone immobile inafferrabilmente milanese

by Luca Rampazzo
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Considerato il fatto che a Milano riuscire a comprare uno spazio dove mettere l’arte da comodino in mostra al Salone del Mobile è impresa titanica, resta sfoggio di coraggio passare una intera settimana a parlare di suppellettili. Tanto che, alla fine, nemmeno gli espositori si cimentano più tanto a mostrare lampade e sofà. Perché, dopotutto, il mondo che gira attorno al Salone del Mobile si è così Milanesizzato da perdere qualsiasi connessione con le radici della mostra. Eppure, la sua evoluzione concettuale è una storia affascinante in sé.

Nato nel 1961 come seria e composta fiera di settore, ci resta la testimonianza di una prima foto. In scala di grigi si vedono dei cumenda sorridenti. Padroni e commerciali, che si preparano a spiegare i prodotti a seri e composti compratori. Nazionali, inizialmente, poi internazionali ad anni alterni ed infine annuali. (https://www.salonemilano.it/it/chi-siamo)

Una immagine da boomer economici, gente che ha costruito questo paese con truciolato e legno pregiato. La fiera c’è ancora oggi su 300mila metri quadri. Eppure non ne parla quasi nessuno. È, infatti, chiusa al pubblico sei giorni su sette. Eredità e omaggio ai cumenda sorridenti che qua devono fare soldi, mica cinema. Quello di cui tutti parlano è un’altra cosa. È il Fuori Salone.

Facciamo un salto avanti di venti anni: negli anni ‘80 la Milano da bere invoca di poter partecipare attivamente al Salone. Ma non venendo fatta entrare, decide di fare un contro salone diffuso. Il Salone è una istituzione centralizzata, regolata e governata. Il Fuori Salone è un gioioso agglomerato diffuso e anarchico di installazioni, idee e tanta, tanta, in mancanza di termini migliori, fuffa d’artista. Il mobile, oggetto concreto per definizione, articolo interclassista, segno del progresso e della democratizzazione della vita comoda viene accostato, infatti, al design.

Il ricco e il povero hanno entrambi una poltrona. Ma il povero continuerà a sedersi sulla propria comoda, frusta, usata e anonima poltrona. Il ricco potrà invece accomodarsi su un oggetto di design dalle linee ardite e comode, slanciato nel futuro. All’ingenuo osservatore può persino sembrare che entrambi facciano la medesima cosa con la medesima parte anatomica. Questo equivoco, che rischia di sottrarre al designer gran parte della soddisfazione e non piccola parte del guadagno, va dissipato senza indugio. Così il Salone del Mobile (e del Design) viene affiancato dal Fuori Salone.

La cui principale funzione è, appunto, spiegare agli osservatori non aggiornati come distinguere il ricco dal povero, anche a natiche invariate. Chi progetta, infatti, ha realizzato che sempre più difficile sarà distinguere un prodotto Ikea, da uno fatto su misura. E che, addirittura, in un futuro distopico, potrebbe avvenire che Divani&Divani, avendo in poca considerazione la moda, ma in grande stima il cliente (e ciò che riposa sotto il coccige del medesimo), potrebbe persino superarli sulle alte fasce. Così nasce l’esigenza di scolpire l’immaginario della crescente classe medio borghese, mostrando ai loro figli la differenza tra il BelloTM e il resto.

Milano, centro che calamita la crème del Paese, funge così da centro educativo del bello. Certo, in versione marketing, pubblicitaria. Il termine corrente per descriverlo è geniale: pop. Da contrazione di popolare, diventa il sunto di uno sforzo collettivo di scultura di immaginario collettivo per una società in pezzi, isolata, monadica. Si seminano eventi per la città e cresce un immaginario. Tra un aperitivo e una installazione, il pubblico si sintonizza. E la cosa bella è che, essendo una fiera anarchica, non c’è una mano dietro. Se non quella invisibile del Mercato. Che non si potrà magari vedere, ma le cui orme sono in tutta la città.

Così un Salone di ridenti cumenda è diventato un accampamento di artisti, in una linea ininterrotta di affari ed esigenza di emergere. Insomma, il Salone è nato a Milano, è diventato Milano e ha rimodellato Milano secondo le esigenze della città. A me, che di Bello non capisco nulla, pare tutto molto affascinante. E incredibilmente, ineffabilmente, inafferrabilmente milanese.