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La lezione dell’alluvione di Firenze e la tragedia della Romagna

by Pietro Spirito
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. Nei momenti dell’emergenza estrema, viene fuori sempre il volto solidale della nostra comunità nazionale. Tantissimi volontari, soprattutto giovani, stanno in queste ore lavorando, senza risparmio di energie, per assistere le popolazioni colpite e per rimuovere il fango che ha invaso le città e i territori. Le nostre istituzioni sono mobilitate in uno sforzo unitario per cercare di mettere in salvo persone e cose.

I fatti della Romagna accadono cinquantasette anni dopo l’alluvione di Firenze, quando gli angeli del fango emozionarono non solo noi, ma tutto il mondo per la loro generosità. Sino ad ora, per la drammatica alluvione ancora in corso, si contano 14 morti ma, a distanza di due giorni dai principali eventi atmosferici avversi, continuano le esondazioni dei fiumi e dei torrenti e la situazione non è ancora tornata sotto controllo. E’ ancora presto per determinare i danni: stavolta non è il patrimonio artistico ad essere stato aggredito dalla forza della natura, ma la stessa tenuta del tessuto civico di molte comunità.

Possiamo imparare dalle lezioni del passato per fare meglio nella ricostruzione del territorio romagnolo? Raccontare ciò che è accaduto in Toscana negli anni successivi alla drammatica alluvione può aiutarci a comprendere la terribile distanza che c’è nel nostro Paese tra efficienza nella gestione della emergenza e sciatteria profonda nella ricostruzione, che è una costante fissa, dopo ogni tipo di disastro naturale, sia esso un terremoto, una alluvione o qualunque altra catastrofe.

Nel documento ufficiale della Prefettura di Firenze del novembre 1966 il numero delle vittime venne fissato in 35, di cui 17 a Firenze e 18 nei comuni della provincia. Così come oggi, le distruzioni non si concentrarono solo nella città di Firenze, ma riguardarono una zona molto ampia della Toscana, pur se fu il capoluogo di Regione ad essere al centro della attenzione mediatica.

La disastrosa inondazione del 1966 ebbe importanti conseguenze sui programmi e sull’organizzazione italiana per la difesa del suolo, almeno in termini di consapevolezza. Venti giorni dopo l’evento, con grande tempestività, fu costituita la Commissione Interministeriale per lo studio della Sistemazione idraulica e della Difesa del suolo, presieduta da Giulio De Marchi.

Suddivisi in cinque volumi di oltre 2.800 pagine, e con un’appendice con le cartografie dei litorali in erosione, gli atti della commissione rappresentano un’opera molto importante in ambito idraulico, sia per l’accuratezza delle rilevazioni che per la bontà delle soluzioni proposte.

Nell’ambito della Commissione, Il prof. Giulio Supino, fiorentino, presiedette il gruppo di lavoro per l’Arno e il Serchio. Il Piano che porta il suo nome prevedeva la realizzazione di 23 serbatoi sull’asta principale e sugli affluenti, di cui 17 a monte di Firenze, per una capacità totale di 240 milioni di metri cubi. Al 2021 l’unica opera realizzata del Piano Supino è stato il serbatoio di Bilancino, entrato in esercizio nel 2001.

L’intervento più importante – e unico fino al 2020 – per la riduzione della pericolosità del centro storico di Firenze è stato l’abbassamento delle platee di Ponte Vecchio e di ponte a Santa Trinità realizzato alla fine degli anni Settanta, oltre il sopralzo delle spallette in alcuni tratti del tronco fiorentino del fiume. Il Prefetto di Firenze dal 1973 al 1977, Aldo Buoncristiano, fu determinante per ottenere i finanziamenti al Progetto di abbassamento predisposto dal Genio Civile sulla base di un modello fisico realizzato dall’Istituto di Idraulica dell’Università degli Studi di Bologna.

Per la riduzione della pericolosità idraulica a Pisa fu realizzato il completamento dello scolmatore dell’Arno a Pontedera. Nel 1990, a seguito dell’emanazione della legge quadro sulla difesa del suolo, fu costituita l’Autorità di bacino del fiume Arno, con il compito di sviluppare il Piano di bacino. Questo importante atto, con forti ricadute anche di carattere urbanistico, è articolato per stralci e, tra le altre cose, indica le strategie per mitigare il rischio idraulico e la difesa dalle alluvioni.

Il primo stralcio del programma sul rischio “rischio idraulico” prevedeva interventi strutturali per oltre 1,5 miliardi di euro e vide la luce nel novembre del 1999. Il piano, che tra le altre cose vincolava molto del territorio di fondovalle non ancora edificato, restò sostanzialmente inattuato, soprattutto per gli scarsi finanziamenti pervenuti dallo Stato e la forte rigidità delle strategie che non offrivano probabilmente una sufficiente progressività dell’azione, visto anche l’estrema incertezza del flusso di risorse economiche.

Non sono stati ancora realizzati interventi sull’asta principale a monte di Firenze. Sono in corso di realizzazione quattro casse di espansione nel Valdarno, per un volume di circa 40 milioni di metri cubi invasabili, finanziate dal Governo Nazionale con Italia Sicura e dalla Regione Toscana, ma solo nel 2016 in occasione del cinquantenario dell’Alluvione. È stato inoltre deciso il sopralzo della diga Levane che garantirà una capacità di laminazione della piena invasando fino a 10 milioni di metri cubi. Il completamento delle quattro casse di espansione del Valdarno e del sopralzo della diga di Levane dovrebbe essere realizzato entro il 2026, per il sessantesimo anniversario.

Allo stato dei fatti, essendo le opere previste a monte di Firenze dal Piano in corso di realizzazione, resta il rischio del ripetersi di una esondazione con situazioni di maltempo paragonabili a quelle del 1966. In tal caso l’Arno tornerebbe ad alluvionare Firenze, anche se con livelli idrici più bassi almeno nel centro storico per effetto dell’abbassamento delle platee dei ponti.

Ecco, non abbiamo molto da imparare, se non in senso negativo, da quello che è accaduto dopo l’alluvione di Firenze, da quasi sessanta anni a questa parte. Questo elemento è un dato particolarmente preoccupante e negativo, soprattutto perché i fatti di Romagna indicano una direzione di marcia che riguarda gli eventi catastrofici non più connessa solo agli assetti idrogeologici, ma anche ai mutamenti climatici.

Le deboli barriere difensive che sono presenti sui territori saranno soggette ad attacchi molto più intensi e frequenti, per effetto della radicalità di tempi di siccità, seguiti da tempi di piogge molto intense. Il tasso di aggressività degli eventi naturali tenderà ad aumentare in modo esponenziale, su una scala territoriale estesa, e questo processo richiederebbe ancor di più programmi di consolidamento del territorio attraverso opere infrastrutturali tempestive ed adeguate.

Gli angeli del fango intanto continuano a lavorare. Forse, dovremmo augurarci che si trovi finalmente la capacità di programmazione ed esecuzione per farli continuare a lavorare, non in emergenza, per difendere e consolidare i nostri territori, per non contare più i morti ma per saper gestire la normalità, questa sconosciuta nel nostro Paese.