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La partita sulla TIM spiegata in breve

by Alberto Gavazzi
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L’Autore è stato consulente per la ricerca e la selezione di senior manager delle telecomunicazioni e della finanza.

TIM è il Gruppo leader in Italia (e in Brasile) nel settore ICT (Information Communication Technology), sviluppa infrastrutture fisse, mobili, cloud e datacenter e offre servizi e prodotti per le comunicazioni e l’intrattenimento all’avanguardia delle tecnologie digitali. I suoi clienti sono cittadini, imprese private e Amministrazioni Pubbliche.

TIM (ex Telecom ITALIA) è un ganglo vitale del sistema economico italiano: è il maggiore operatore di telecomunicazioni, detiene la parte più rilevante dell’infrastruttura gestendo direttamente o indirettamente reti in rame ed in fibra ottica, sia a livello di reti primarie che secondarie (dalla cabina all’utente finale). Parteciperà alle gare del PNRR (valore 4 miliardi di euro) che riguardano il cablaggio in fibra ottica di alcune aree del Paese.

TIM non ha un azionista di maggioranza: il primo è il Gruppo francese Vivendi con il 23,75%. Segue la Cassa Depositi e Prestiti con il 9,8%, poi i cosiddetti Investitori Istituzionali con circa il 45% e i piccoli azionisti con il 21%. Gli azionisti francesi, che entrarono nel 2016 e si sono sempre dichiarati “investitori di lungo termine”, non sono soddisfatti dei risultati e vorrebbero cambiare il management: il valore della loro partecipazione (ai valori di Borsa di venerdì 19.11) è sceso di due terzi dal loro ingresso.

Nel fine settimana successivo, uno dei più grandi e titolati fondi di Private Equity del mondo, l’americano KKR, manifesta il proprio interesse ad acquistare un minimo del 51% fino al massimo della totalità delle azioni, ad un prezzo che valorizza la Società a 46 miliardi, al lordo dei 35 miliardi di debiti. (Questa offerta non soddisfa i francesi che rimarrebbero in perdita, circa la metà dell’investimento).

Il Governo italiano, presente nel capitale attraverso il secondo azionista CDP, vede positivamente l’interesse di questi investitori verso importanti aziende italiane e annuncia la creazione di una task force governativa per valutare i passaggi sulla rete telefonica, un asset strategico per la nostra sicurezza. Potendo poi esercitare il cosiddetto Golden Power (uno scudo protettivo sugli asset strategici), il Governo punterebbe al riassetto azionario di TIM per trovare una soluzione definitiva al tema del controllo di una infrastruttura chiave.

Chi ha più di cinquant’anni e seguiva le cronache finanziarie degli ultimi anni 90’ ed i primi 2000, ricorderà le clamorose scalate alla Telecom Italia (privatizzata da pochi anni) prima da parte di Colaninno e dei capitani coraggiosi, poi da parte di Tronchetti. La prima un’operazione finanziaria di corto respiro, la seconda un’operazione industriale purtroppo afflitta da errori in un contesto di cambiamenti epocali nel settore. Più avanti l’ingresso e poi l’uscita di un altro partner industriale, la spagnola Telefonica. La quotazione di Borsa della Società che aveva raggiunto i 5 euro nel 2000, era scesa a 2,50 euro nel novembre 2001 e la settimana scorsa era a 0,35 euro. Insomma, la più tribolata tra le privatizzazioni del settore pubblico italiano, iniziate negli anni 90’.

Secondo Gamberale, uno degli storici managers di Telecom Italia, i Governi italiani non hanno esercitato un doveroso ruolo di osservatore e, se necessario, di censore della Società nel corso di due decenni. E’ molto probabile che questa volta le cose vadano diversamente. Il Governo è impegnato ad assicurare il rapido completamento della connessione con la banda ultralarga (secondo il PNRR), quindi seguirà con attenzione gli sviluppi di questa vicenda valutando tutte le opzioni disponibili. Si parla anche di una crescita di CDP nel controllo della rete. Quindi un investimento statale nel caso si facesse una scelta di politica industriale, cioè ritornare al controllo pubblico delle reti in rame ed in fibra ottica (dopo Autostrade un’altra infrastruttura tornerebbe pubblica). Ovviamente non mancano i sostenitori di quest’ultima impostazione, che non dimenticano le ristrutturazioni del passato costate migliaia di posti di lavoro.

Ci sono un paio di domande che dobbiamo porci con serenità. Quanto costerebbe al cittadino italiano questo investimento pubblico? E sarebbe prioritario rispetto ad altre voci di spesa e di investimento nella salute, nel clima e nella vecchiaia che sicuramente andranno ad ingrossare i conti pubblici nei prossimi decenni?

Senza tornare ai tempi di Reagan e della Thatcher, i campioni del libero mercato, e considerando che l’invecchiamento della popolazione ed il clima sono forze poderose a favore dell’allargamento delle dimensioni della “spesa pubblica”, il ruolo del Governo nello scegliere cosa può o cosa deve fare diventa sempre più cruciale.