fbpx
Home Recensioni L’età della nostalgia, di Alessandro Gandini

L’età della nostalgia, di Alessandro Gandini

0 comment

Quando si attraversano momenti di crisi, viene la tentazione di guardare alla realtà con lo specchietto retrovisore. L’incertezza del presente e l’angoscia del futuro ci spingono verso una idealizzazione del passato. Su questi temi si interroga il libro di Alessandro Gandini, “L’età della nostalgia. Populismo e società del post-lavoro”, Treccani.

La Brexit e l’elezione di Trump sono state una reazione al decennio di austerità economica che ha seguito la crisi finanziaria 2007-2008, con la conseguente incapacità dell’Occidente di immaginare un futuro dopo di essa. Questi due eventi politici sono le manifestazioni più lampanti dello spirito del tempo, al principio del ventunesimo secolo: la nostalgia.

È entrato in crisi il modello sociale imperniato sul lavoro quale fondamento della coesione costruita sul mito della “good life”, della buona vita che ha costruito la società del benessere. Il declino di una società imperniata attorno al lavoro, assieme alla difficoltà di immaginare una alternativa, rappresenta una prospettiva disorientante per la larga parte delle popolazioni in Occidente. Le politiche neoliberiste hanno eroso in modo consistente la stabilità dell’impiego ed il lavoro è diventato sempre più precario. Sono crollate, con le Torri Gemelle, le fondamenta di quel patto sociale che aveva edificato la società del benessere.

È così nato un risentimento dilagante, padre di tutti i populismi contemporanei, assieme ad una sfiducia generalizzata, madre nella coppia, espressione di un odio sociale verso quell’ordine liberale che aveva promesso uno sviluppo continuo.

La nostalgia, figlia di risentimento e di sfiducia, fornisce una visione mitizzata del passato che si offre come luogo verso il quale fare ritorno. L’ottimistica fiducia nel futuro è passata di moda, mentre la nostalgia, nel bene e nel male, non lo è mai, perché resta sempre misteriosamente attuale.

La radice etimologica della parola nostalgia ci aiuta a comprendere il suo fascino: è composta da due termini greci, algia (desiderio) e nostos (ritorno a casa). Indica insomma quella che Simon Reynolds definisce la “retromania”, la quale si esprime non solo nel l’atteggiamento dei singoli ma nella industria culturale, nell’offerta politica, nelle mode. Ed i social media hanno moltiplicato questo sentimento nostalgico, che pervade le piattaforme della modernità.

Dentro c’è anche una rinnovata paura dello straniero. Lo spiega bene Zygmunt Bauman: “Un vicinato pieno di estranei è un segnale tangibile e visibile delle certezze che svaniscono e delle prospettive di vita che sfuggono al nostro controllo a ai nostri sforzi per realizzarle”. I miti del ventesimo secolo sono diventati distopia, già sul finire del secolo passato. Negli Stati Uniti e in Europa è venuta meno la promessa sociale democratica del dopoguerra.

In America la pancia profonda espressa dai “flyover countries”, gli Stati collocati tra le coste dell’Est e dell’Ovest, ha catturato la maggioranza silenziosa che si opponeva al capitalismo finanziario ed al “politically correct” dei democratici.

Ma è la trasformazione dei mestieri e dell’occupazione che mette in evidenza le tendenze più profonde. Nel ventunesimo secolo il lavoro fuoriesce dalla convenzionale distinzione tra tempo libero e lavorativo, e dalla sua esecuzione a livello spaziale e temporale.

Si immaterializza nelle piattaforme digitali che riducono la sfera dei diritti e l’ammontare della retribuzione. Sta nascendo una società della post-occupazione, con forme di lavoro che deviano dalle definizioni codificate a livello normativo o culturalmente definite, tipiche dell’età industriale.

L’area di queste relazioni è allo stesso tempo ampia, ed ancora non pienamente definita: lavoratoti freelance, clickworkers, lavoratori a richiesta della gig-economy, imprenditori delle start up.

La nostalgia appare, allo stato dei fatti, una forza di cambiamento sociale ancora maggioritaria. La sua ascesa egemonica rappresenta la punta di un iceberg di una guerra culturale molto più vasta, che coinvolge il cuore dei valori sociali e mette in discussione alcune delle conquiste progressiste del secolo precedente.

Senza una idea condivisa di futuro non sarà passibile contrastare l’irresistibile tentazione di guardare al passato come la traiettoria alla quale assegnare il nostro destino.

È il paradosso più clamoroso della società digitale dei nostri tempi. Ad una inarrestabile avanzata delle tecnologie corrisponde un arretramento della nostra capacità di guardare avanti.