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Lo spazio pubblico del Maradona – San Paolo

by Vito Nocera
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Confesso che quando i sessantamila hanno intonato l’inno a Diego mi sono commosso e non sono riuscito a trattenere qualche lacrima. D’istinto, forse per evitare di mostrarmi a Francesco Raiola e a mio figlio Giulio, mi sono voltato dietro. Lì uno degli svegli ragazzi proletari che erano alle mie spalle – e con i quali ci eravamo intrattenuti a parlare in attesa del fischio d’inizio – accortosi dei miei occhi lucidi mi ha messo solidale e protettivo una mano sulla spalla. In quel momento per lui ero un signore quasi anziano che, come gli avevo raccontato prima, non metteva piede da anni in quello stadio.

C’è come un calore in certi momenti in un luogo così che si traduce in sentimenti estremi e profondi. Arbitri e avversari scavano da dentro di noi il peggio di noi stessi. Dalla propria parte della barricata si diventa invece tutti più buoni, tutti amici, pronti a sacrificarsi l’uno per l’altro.

A quei ragazzi, nel frattempo che mangiavano un panino tirato fuori da borse portate da casa, avevo raccontato dei momenti trascorsi su quello stadio nei lontani anni ‘60 con mio padre e lo zio Eugenio. A soffrire in B con squadre come la Triestina o la Pro Patria. E poi gli anni più recenti della B con la bella compagine di Walter Novellino. E loro a meravigliarsi che per una partita “vera” mancassi ormai dalla vittoria della Samp di Vialli e Mancini nel ‘90. Arrivato da Roma, dove in quegli anni vivevo, per tentare di dare una mano a una squadra stellare in declino, che pure ancora aveva in campo gente come Diego, Careca e Alemao.

Quasi il presagio di una nemesi, allora a celebrare un grande gruppo calante, ora per assistere alla consacrazione di una grande squadra emergente. Non una nostalgia di Diego calciatore, i ragazzi in campo sembravano di fatto undici lui, ma il rimpianto per un uomo, per la sua gioia, l’amore che aveva per il calcio. Per quanto sarebbe stato felice in quella bolgia. O anche solo inviando sulla rete il suo consueto gesto di esultanza ad ogni importante vittoria azzurra seguita da lontano in TV.

E’ il senso della storia, della vita che passa, Giulio che tra qualche giorno compie 32 anni, Francesco – figlio del mio amico forse più caro che da tanto ormai non c’è più – un po’ più grande. E quei ragazzi d’intorno che tentavano di mettere insieme la loro gioventù con qualche ricordo di calcio più lontano nel tempo. Un groviglio di intrecci vitali, di ricordi lontani, di stagioni passate, di generazioni che transitano rapide, a volte disperate, sulla scena della vita, con chissà che futuro davanti.

E tu che, tra passato e futuro, ti identifichi un po’ con il presente. Fragile e un po’ malinconico come chi sta transitando ma anche consapevole che passato e futuro sono determinazioni del presente. Ricordiamo il prima e immaginiamo il dopo ma è qui – nel presente e solo in esso – che possiamo farlo.

Tutto questo ci ho trovato l’altro giorno in questo Napoli Juve.

Una storia popolare, un romanzo d’amore iniziato nel lontano ‘58 allo stadio Collana del Vomero. Contrariamente a quanto si pensa i confronti con i bianconeri non sono stati avari di vittorie. Tante, come quel primo leggendario 4 a 3 di quell’anno. Ora gli azzurri sul campo sembrano dei ragazzini nel confronto con i giocatori di un tempo che sembravano già quarantenni. E’ la storia umana e sociale con i suoi cambiamenti che incide su tutto.

Il S. Paolo, non me ne vorrà Diego ma mi viene di chiamarlo così, diventa una specie di caleidoscopio attraverso il quale puoi leggere la vicenda del Paese. L’ eroica resistenza degli anni del dopoguerra, dove anche i calciatori con casacche larghe e sgraziate sembravano rimboccarsi le maniche. Le speranze e le aspettative degli anni ‘60, lo sviluppo industriale, la classe operaia, gli squadroni di Milano e perfino di città come Lecco, Mantova e Brescia. Il clima buio degli anni ‘80, il terremoto, le proteste sociali. I disoccupati organizzati che srotolano d’improvviso uno striscione di cui all’ingresso, per passare i controlli, si leggeva  solo la parola Krol (il leader del Napoli di allora) ma che dispiegato diventa “Krollocamento truffa, per il lavoro”. Insieme creatività e furbizia del proletariato precario napoletano. In fondo una delle poche risorse sociali vive di cui ancora oggi la città dispone. Via via poi gli anni di Diego, le vittorie, una città che si identificò in un riscatto rimasto però effimero.

Come dimostrarono gli anni a venire. Prima del tanto criticato De Laurentis, in città non c’è una borghesia e una imprenditoria capace di prendere in mano il calcio Napoli. Fallimenti, scandali, di nuovo la B e persino la C. Vero che il calcio non va sempre di pari passo con la vita economica e sociale di una città. Ma Milano ha avuto gli squadroni che vincevano tutto negli anni dell’avvento della borghesia del petrolio, come a Torino la Fiat. E tanti stenti di Napoli hanno spesso fatto il paio con le difficoltà della squadra di calcio.

Ora è diverso, qui come altrove, il mondo globalizzato rende il pallone impermeabile alle vicende sociali, sta piuttosto nel buco nero di finanza e grandi affari. Non è più sensore e sintomo dello spazio economico e pubblico.

Ma questo i ragazzi alle mie spalle non lo sanno. E per una notte, reagendo d’istinto alla desolata solitudine sociale contemporanea, lo spazio pubblico è qui.