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Milano nella nebbia (leggera) del Coronavirus

by Luca Rampazzo
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Un filo di preoccupazione si comincia a respirare. Per quanto, va detto, fedeli alla linea della città dalla doppia anima, virtuale e fisica, Milano ha due volti. Le chat di Whatsapp e Telegram, e le strade. Il primo mondo è scosso dalla paura. Il secondo, dopotutto, ne ha viste di peggio e prosegue la sua vita. Facciamo un passo indietro. Per capire il clima va ricordato che Lodi, rispetto a Milano, è come Avalon per Tokyo. Un bel posto di cui nessuno sa nulla e forse non vedrà mai. Codogno ha poi la stessa consistenza, la stessa corporeità del castello di Mago Merlino. La notizia del contagio non aveva quindi colpito più di tanto.

La campagna, per i Milanesi, è qualcosa che capita agli altri. Di solito quelli che non si possono permettere di vivere a Milano. L’unica eccezione sono i parenti fuori città, ma sono pochi e non particolarmente collegati a Lodi. Quindi non c’era alcun legame empatico. Sì, era preoccupante, ma per un motivo sottilmente diverso. Il paziente zero, che poi non era un paziente come si è scoperto ieri sera, era un imprenditore di ritorno da Shangai. Ecco, paradossalmente, scuoteva più questo (tutti abbiamo un amico che fa la spola con Hong Kong o Shangai da queste parti), che non la vicinanza geografica con i luoghi chiusi.

Chiusi. Anche questo innervosisce il Milanese. Non siamo abituati ad avere muri in casa. Pochi ne subiscono i danni diretti, ma sono una pietra su una strada altrimenti dritta e libera. Spiccano. Poi è successo qualcosa. Apparentemente piccola, non correlata, trascurabile. A Milano il primo contagio. Un anziano di Sesto San Giovanni (che non si sa nemmeno se abbia davvero il Coronavirus, sono in corso ulteriori esami). Non è più un’epidemia ad Avalon. Vista da Tokyo. Non è più qualcosa che capita agli altri, gli sfortunati cui capita anche la campagna. È qui. È al San Raffaele. Le difese mentali sono crollate. E si è scoperto che il cinismo, l’astrologia e la superiorità intellettuale non proteggono più.

Stamane, andando a prendere il giornale ho incontrato due persone. Hanno cambiato marciapiede. Io non sono facilmente confondibile con un asiatico. Non conta più nulla. Nelle periferie il problema, storico peraltro, è l’altro in quanto tale. Lentamente, partendo proprio dalle ultime propaggini, chat e vita reale si stanno fondendo. Ed a vincere non è il cinismo scanzonato della cerchia dei navigli. Però non c’è ancora panico. Solo una certa ansia, leggera come la nebbia che quest’anno abbiamo visto solo in cartolina. Le misure impattano ancora poco sulla vita quotidiana. Le Università chiudono, vero, ma essendo periodo post esami di studenti in giro non se ne vedevano moltissimi. Ci saranno tre partite in meno, allo stadio. Però è stato deciso poco fa di chiudere anche le scuole. Qui le mamme lavorano, chiudere le scuole può avere conseguenze sulle aziende.

Intanto è un fine settimana di sole, quindi la gente in città non c’è di default. Vedremo come reagirà domani. Oggi non tutto si è fermato, non tutto è paralizzato. Il mio vicino di casa, uomo noto per la sua passione per la vita notturna, questa mattina è rincasato alle sette. Come ogni domenica. Non tutto è perduto. Non tutto è fermo. Non tutto ha paura di un nemico che, come nel Deserto dei Tartari, speriamo possa non manifestarsi mai davvero.