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Napoli e il Sebéto, fiume dalle sette vite

by Federico L.I. FEDERICO
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“Ingegnè, però durant’ ‘a staggiòne dint’ ‘o lagnetiéllo càntano ‘e rranògne !! La frase – riferita a un breve ma profondo fosso perimetrale – era stata buttata là senza particolare enfasi dal guardiano del parcheggio scoperto per camion, dove ci eravamo soffermati. Eravamo in una strada situata nella zona industriale di Via Argine. Intanto preciso subito, per il lettore, che il termine lagnetiéllo, sta a indicare un “lagno piccolo”, che non è però un… lamento flebile, ma un piccolo corso d’acqua, generalmente artificiale. Il termine dialettale lagno deriva infatti dal latino medievale lagnum, a sua volta derivante da lanium. Entrambi però derivano dal nome del fiume Clanio, il fiumicello campano per antonomasia.

Il parcheggio era ubicato in via Generale Sponzilli. Per arrivarci era impazzito un po’ anche il nostro Google Maps, perché in quel tratto la strada è oggi una sottovia di uno tra i tanti svincoli autostradali della Zona Industriale di Napoli Est. Nel parcheggio eravamo entrati con la mia auto quasi per caso, dopo avere percorso quella strada depressa e piena di pozzanghere. E intanto l’ospitale guardiano ci confermava che la strada si allaga frequentissimamente quando piove forte e rimane costellata di pozzanghere a tempo asciutto. Le parole del guardiano, cogliendo nel segno, avevano spalancato le porte della mia attenzione. La presenza del “lagnetiello” però indicava che eravamo finalmente arrivati alle tracce del fiume Sebéto, uno dei fiumi di Napoli storicamente più noti

La natura di quel fosso risultava solo apparentemente del tutto artificiale, con le sue acque immote, ferme sul fondo di un breve e profondo alveo. Lo stavamo constatando insieme io e il mio amico, ingegnere territorialista, Giovanni D’Amato, presidente del Comitato scientifico di L’Altritalia Ambiente, una associazione ambientalista nazionale. Egli mi aveva accompagnato nella ricerca, che io sto conducendo ostinatamente, delle sopravvissute tracce liquide del Fiume Sebéto. A partire dal 2018 – come narrato da “Il Mattino” in un interessante articolo – il Sebéto si va facendo vivo lungo quello che fu il suo percorso, o nelle vicinanze, dopo che per decenni era scomparso alla vista.

Sui Social del Web, oggi, compaiono non di rado notizie del Sebéto e foto delle sue attuali risorgive. Ma anche addirittura foto d’epoca che lo ritraggono quando le sue acque erano balneabili e le sue sponde frequentate da agricoltori, pescatori e anche bagnanti d’occasione.

 

 

D’altronde si sa che l’acqua, se viva e corrente, prima o poi “risorge” da qualche parte, anche combinando guai grossi, come cedimenti improvvisi del suolo. E la Città di Napoli ne sa qualcosa. Anzi troppe volte ne ha scontato l’ignoranza prolungata… fino al disastro.

In quel sabato di dicembre 2022, scelto per non affogare nel traffico, eravamo in piena Zona Industriale, tra tubi di ogni diametro, i quali imperversano sopra e sotto i ponti dei tanti viadotti autostradali, poco lontano dal mare del Forte di Vigliena e da S. Giovanni a Teduccio.

Quel “lagnetiello” era un piccolo e angusto reliquato di canale idraulico, che trasportava sul fondo acqua appena visibile. Un’acqua che temevamo morta biologicamente e che invece faceva riapparire d’estate la propria fauna gracchiante, testimone comunque di vita biologica vivente, forse trasportata da correnti sotterranee ignote.

Il lagnetiello da noi rintracciato appartiene al Sebéto e si trova comunque a poca distanza dal mare di S. Giovanni a Teduccio. Quel tratto di mare è divenuto un tratto del mare della Città di Napoli nel 1925, in epoca fascista, quando fu soppressa la Municipalità autonoma del Comune di San Giovanni, che fu accorpato al Capoluogo, perdendo la propria identità comunale. Quel mare, oltraggiato in epoca moderna e anche dimenticato in epoca contemporanea, dovrebbe presto essere riscattato, stando ai programmi regionali che prospettano un “futuro unico water front balneabile da S. Giovanni a Teduccio a Sorrento”.

Forse è troppo bello per essere vero, ma volentieri facciamo finta che lo sia.

Si sappia intanto che l’inizio di un tale eccezionale e straordinario water front è stato segnato per secoli, anzi per millenni, proprio dal Sebéto, il misterioso fiumicello napoletano che si riversava nel mare napoletano sul litorale plagiense. Ma non lo fa più, almeno apparentemente. Il Sebéto, infatti, è stato dato per estinto spesso e da tante fonti, bene informate o non. Ma in effetti è stato vittima solo della antropizzazione smodata dell’area periferica di Napoli che lo ha fatto sparire e ricomparire, come un folletto dispettoso, già dall’Ottocento.

E ancora nel corso Novecento il Sebéto attraversava le campagne vesuviane da Volla a Casalnuovo e poi a Ponticelli, prima di entrare nel territorio comunale di Napoli e dirigersi verso il litorale, ben oltre il Ponte della Maddalena, ubicato alle porte della Cinta muraria aragonese orientale e al di fuori di essa. Quel ponte, risalente alla metà del Cinquecento, funzionò spesso da frontiera tra eserciti contrapposti, perché collegava due sponde opposte, scavalcando il Rubèolo, altro fiumiciattolo “napoletano”, già noto ai tempi degli Angioini, proveniente dalle pendici vesuviane e a volte scambiato dagli storici con il Sebéto. La fortissima urbanizzazione napoletana, con il trascorrere dei secoli, ha cancellato il corso del Sebéto e non solo di esso. E, già il grande poeta Francesco Petrarca, arrivato a Napoli nell’anno 1340, nella sua veste di viaggiatore e studioso, per individuarne il percorso, aveva constatato che il fiume Sebéto, già noto a Greci e Romani, si muoveva a fatica, stretto come era tra i fabbricati che ne ostacolavano il fluire a mare

Dopo circa nove secoli, il Sebéto ritorna a far parlare di sé seminando tracce che testimoniano la sua fatica di via d’acqua che si fa strada verso in mare. Nonostante tutto…