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Assunzioni pubbliche e reddito di cittadinanza

by Pietro Spirito
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Dopo tanti anni di blocco del turnover, la pubblica amministrazione, soprattutto a livello locale e nel Mezzogiorno, torna a svolgere concorsi e ad assumere numeri consistenti di personale. E’ certamente una buona notizia, anche perché ormai il tessuto delle risorse umane necessarie per svolgere le funzioni pubbliche si era intanto logorato al punto tale da non garantire nemmeno più le prestazioni essenziali, se non in tempi assolutamente incompatibili con la civiltà minima alla quale dobbiamo aspirare, anche per le funzioni ordinarie delle istituzioni e dei servizi pubblici.

Non basta tuttavia tornare ad assumere nella pubblica amministrazione per generare una svolta, ma almeno è un inizio. Non basta perché poi succede che nelle istituzioni la mano destra non sappia quello che fa la mano sinistra. Politiche sociali e politiche occupazionali non si parlano tra loro.

Le amministrazioni e le aziende pubbliche tornano finalmente ad incrementare il numero dei dipendenti in una condizione attuale di scarsità, mentre contestualmente da qualche anno è stato varato il reddito di cittadinanza, per sopperire alla mancanza di lavoro, con una misura sociale che garantisce a questi cittadini disoccupati un sostentamento.

Tra questi due provvedimenti non esiste alcun punto di contatto, a testimonianza, ancora una volta, che al posto di una politica economica abbiamo un menu à la carte, utile più al consenso elettorale che non alla tutela degli interessi collettivi dei cittadini. Nel corso degli anni recenti, abbiamo constatato tutta una serie di distorsioni nella applicazione del reddito di cittadinanza, che, se pur certamente costituisce uno strumento di civiltà, ha manifestato un insieme di effetti distorsivi sui quali bisogna intervenire.

In diversi casi il reddito di cittadinanza è stato erogato a persone che non erano nella condizione di effettivo bisogno. In altri casi, chi legittimamente riceve il sussidio, poi capita che cerchi di arrotondare il salario di cittadinanza con prestazioni a nero, che determinano a loro volta distorsioni sul mercato del lavoro.

Quello che non ha per niente funzionato è il meccanismo di accompagnamento dalla condizione di disoccupazione verso l’impiego, per evitare la cronicizzazione del reddito di cittadinanza, che non è né possibile dal punto di vista della sostenibilità del bilancio pubblico né convincente dal punto di vista dell’esercizio di politiche sociali responsabili. Per non parlare dei navigator, che a loro volta sono stati uno strumento attivo di politica del lavoro, nel senso minimalista che si è garantita una occupazione a chi doveva cercare ad altri occupazione.

A questo punto si inserisce la mancanza di incontro tra domanda ed offerta nelle diverse misure della politica economica. Se le amministrazioni pubbliche tornano finalmente ad assumere, non si capisce perché non si possa dare un canale prioritario di accesso ai cittadini che percepiscono il reddito di cittadinanza, almeno per una serie di profili professionali che richiedono competenze professionali specialistiche. Non si può certo pensare di pescare dalle liste del reddito di cittadinanza quando una pubblica amministrazione cerca sofisticate conoscenze non facilmente reperibili, ma almeno quando si fanno concorsi per operatori ecologici o impiegati amministrativi si può forse immaginare utilmente di mettere in comunicazione due interventi che generano entrambi costi per la pubblica amministrazione. In questo modo si determinerebbe un meccanismo di circolazione tra disoccupati ed occupati, con una serie di effetti virtuosi per il tessuto sociale.

Innanzitutto non si genererebbe un effetto di sommatoria solo in crescita per la spesa pubblica, in quanto l’ingresso nella amministrazione di una parte dei percettori del reddito di cittadinanza eliderebbe – almeno in parte – voci che rischiano di essere solo addizionali per le amministrazioni pubbliche.

In questo caso non dovrebbe essere consentita la possibilità di rifiutare il lavoro nella pubblica amministrazione per chi percepisce il reddito di cittadinanza: verrebbe stanato per tale via un comportamento parassitario ed opportunistico che non può essere considerato sostenibile.

Quando il datore di lavoro è lo stesso che garantisce il reddito di cittadinanza, ragionevolmente può essere messo nel conto che non possa essere lasciata la scelta di rifiutare l’occupazione continuando a percepire il sussidio. Le risorse finanziarie risparmiate per effetto dell’ingresso nel mercato del lavoro di cittadini che in precedenza erano nell’area del sostegno sociale libererebbe disponibilità economiche che potrebbero essere messe in circolo per tutelare altre fasce di cittadini, oggi in una condizione di marginalità dal punto di vista del reddito o della condizione sul mercato del lavoro.

Non va nemmeno sottovalutata la tempestività con la quale potrebbero essere reperite le risorse umane necessarie per il funzionamento delle pubbliche amministrazioni, mediante l’immissione negli organici pubblici di cittadini che incassano il reddito di cittadinanza: lo svolgimento dei concorsi pubblici richiede un tempo di attraversamento significativo ed una serie di costi non marginali.

Insomma, manca in Italia una visione olistica delle politiche economiche. Non si creano quegli incastri virtuosi che possono liberare energie e potenzialità ingabbiate entro schemi rigidi, incapaci di intervenire contro gli squilibri che si sono determinati quando sono stati messi in campo provvedimenti giusti nelle finalità, ma con percorsi di attuazione che hanno generato effetti distorsivi. E’ chiedere troppo che le diverse leve messe in campo dalla mano pubblica siano in comunicazione tra loro?