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Dal voto in Lombardia e Lazio governo blindato

by Luigi Gravagnuolo
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Certo che bisogna essere temerari di questi tempi, tanto poco gettonati per la politica, a fissare la data delle elezioni regionali a conclusione della settimana di Sanremo! Il risultato è sotto gli occhi di tutti, probabilmente ci sono stati più sms sabato sera per Mengoni che voti per i candidati governatori di Lombardia e Lazio nelle due giornate di domenica e lunedì! Ma tant’è, questa è stata la musica – per restare in tema – e con questa balliamo.

Cominciamo con i dati assoluti, che tuttavia, per semplificare, spesso arrotonderemo. Va anche detto da subito, in premessa, che ragioneremo per grosse linee, senza entrare troppo nei dettagli; ad esempio, non considereremo le liste ‘civiche’ di sostegno ai candidati presidenti, nelle quali trovano in genere posto, assieme ad esponenti della ‘società civile’, militanti per i quali non si riesce a trovare posto nelle liste ‘ufficiali’ dei loro partiti.

Dunque, per Attilio Fontana, candidato del Centro Destra in Lombardia e Presidente uscente, il 4 marzo del ‘18 votarono 2.793.369 elettori; domenica e lunedì scorsi i suoi voti sono scesi a 1.774.477. Un milione in meno, eppure il Centro Destra canta vittoria. Cosa più che giusta se si tiene conto della percentuale, passata dal 50% di cinque anni fa al 55% di oggi, e soprattutto se si giudica sulla sostanza: al Pirellone siederà da Presidente ancora Attilio Fontana.

Nel Lazio il CD in valori assoluti ha conservato i suoi voti, intorno ai 950mila in entrambe le elezioni, passando però in valori percentuali dal 31% del ‘18 all’attuale 54% e scalzando il Centro Sinistra da via Cristoforo Colombo.

Vediamo il Centro Sinistra. In Lombardia nel ‘18 ottenne 1.633.373 voti, oggi ne ha incassati 1.101.500. L’arretramento è tanto più significativo in quanto oggi si è presentato in coalizione col M5S, che nel ‘18 aveva preso 974.983 voti; un calo complessivo, dunque, di circa un milione e mezzo di elettori. Nel Lazio, in termini percentuali il CS è restato stazionario, avendo guadagnato oggi il 33,5% con Alessio D’Amato candidato presidente, contro il 33% di Nicola Zingaretti nel ‘18. Ha però perso il governo della Regione, il che non è roba da poco.

Comun denominatore per entrambi gli schieramenti è l’impennata dell’astensionismo, che fa sì che, in termini percentuali sul totale degli aventi diritto al voto, i due nuovi governi regionali rappresentino direttamente il 22% dei lombardi e il 19% dei laziali. Complessivamente i due Consigli Regionali sono espressione del 40% degli elettori. Governi e Consigli minoritari dunque. Il dato di per sé è quanto meno imbarazzante per la nostra democrazia. Sulle ragioni del disincanto della gente verso la politica proveremo a ragionare nei prossimi giorni, qui invece restiamo sull’analisi del voto espresso dalle urne.

Una prima considerazione riguarda lo schieramento del CD. Al suo interno, cominciato da un anno, è ancora operante con efficacia il cannibalismo dei FdI nei confronti degli alleati. In Lombardia, pur nel contesto dell’astensionismo di cui sopra, il partito della Meloni ha guadagnato poco più di mezzo milione di voti rispetto alle regionali del ‘18, mentre la Lega e Forza Italia ne hanno persi rispettivamente un milione e mezzo milione. Lega e FI hanno ceduto quindi oltre un milione e mezzo dei loro voti del ‘18, due terzi dei quali sono finiti nel calderone dell’astensione, ma un terzo lo ha pur recuperato FdI. Nel Lazio, sempre confrontando i dati regionali di oggi con quelli del ‘18, FdI ha guadagnato 300mila voti, mentre Lega e FI ne hanno persi 120mila la prima e 240mila la seconda. Nella Regione della capitale, dunque, FdI ha recuperato pressoché totalmente i voti persi dai suoi due principali alleati.

Ha dunque ragione il Presidente del Consiglio a dire che oggi il suo governo è più forte. La sua leadership nello schieramento ne esce rafforzata, pur se qualche analista avverte che proprio la progressiva cannibalizzazione degli alleati potrà comportare una qualche loro insofferenza nei confronti della premier e del suo partito. Sarà pure, ma francamente l’on. Meloni pare ben in grado di gestire queste insofferenze. Il governo, dunque, reggerà senza particolari patemi ancora per un bel po’, senz’altro fino alle europee del prossimo anno. Poi molto dipenderà, oltre che dall’esito delle europee, anche dal voto USA del novembre ‘24 per la Casa Bianca. Trump o non Trump, dovessero tornarvi i repubblicani, cambierebbe lo scenario, su scala globale ed anche in Europa, e lì bisognerà capire come si muoverà il nostro Capo del Governo, che per la verità finora qualche scivolata pesante l’ha presa proprio nei rapporti con i Paesi dell’U.E.

La buona salute del governo è peraltro assicurata da quella pessima delle opposizioni. Cominciamo dal MoVimento 5 Stelle, che molti con notevole approssimazione posizionano nel Centro Sinistra. I pentastellati guidati da Conte hanno perso, rispetto a cinque anni fa, 800mila elettori in Lombardia e 700mila in Lazio, numeri più che sufficienti a ridimensionare i loro baldanzosi entusiasmi fondati sui sondaggi. Un ragionamento dovranno ora farlo sulle alleanze. In Lombardia in coalizione col PD non sono arrivati al 4% dei voti, nel Lazio da soli hanno superato da poco il 10%. Se tanto ci dà tanto, dobbiamo considerare che sarà in prospettiva difficile che essi siano disponibili a coalizioni col PD.

Quanto ad Azione/Italia Viva non si possono fare raffronti con le precedenti regionali in quanto nel ‘18 la formazione non esisteva. Va però detto che in Lombardia, presentatasi da sola, ha preso circa il 10% dei voti; nel Lazio invece, in coalizione col PD, si è fermata al 5%. Anche per Calenda e Renzi vale dunque quanto detto per Conte, in coalizione col PD vengono penalizzati.

Né al M5S, né ad Azione/IV conviene dunque, sotto il profilo squisitamente elettorale, unirsi in coalizione col PD, e tuttavia, se non si alleeranno ad esso, dovranno mettersi l’animo in pace: resteranno all’opposizione a lungo. Ed una formazione che per troppo tempo non riesce a dare al proprio elettorato una prospettiva politica, rischia l’estinzione.

Stessa minaccia aleggia sul PD, quale che sarà il suo segretario da marzo in poi. Pierfrancesco Majorino, il suo candidato governatore in Lombardia, in coalizione col M5S, si è attestato sul 33%. Grosso modo stessa percentuale nel Lazio dove, con Alessio D’Amato, il PD era in coalizione col Centro. Anche per le due liste di partito non ci sono differenze sostanziali tra i risultati lombardi e quelli del Lazio, in entrambe le Regioni si sono attestate intorno al 21%. I suoi leader possono dunque ben dire che il PD resta il perno di ogni possibile alternativa di governo; ma, da soli, non andranno oltre questo distintivo per lo meno di qui a un paio di anni, salvo eventi al momento imprevedibili.

Soprattutto resta per il PD il dilemma se provare a stringersi in coalizione col Centro ovvero con il M5S, sempre che l’uno o l’altro fossero disponibili. Per ora il PD resta nel dubbio amletico, alla ricerca ‘prioritaria’ – così afferma il suo segretario in pectore – della ‘propria identità’. Ma come, pur incerottato, resti punto di riferimento per qualche milione di persone in Italia e che non sai ancora qual è la tua identità? Ai limiti del kafkiano! Faccia attenzione il partito di via del Nazareno e trovi presto la sua strada, in politica la somma di più indecisioni fa sempre zero!