Recentemente, questo giornale ha dato conto del varo della Maria Grazia Onorato, la nuova nave che reca sulla fiancata, a lettere cubitali, la scritta: Onorato per i marittimi italiani. “Una presa di posizione politica da 33.000 tonnellate di ferro che scende in mare in difesa dei marittimi italiani”.
Una famiglia, quella degli Onorato, che insieme ai Grimaldi, ai Lauro, agli Aponte, ai D’Amato, ai Bottiglieri, agli Ievoli, ai Rizzo, ai Savarese, ai Di Leva e a tanti altri ancora, ha segnato per la Campania un primato di presenza nello shipping mondiale.
L’anomalia è tutta qui, che sia un armatore a farsi paladino degli interessi dei lavoratori e non i sindacati. E lo scontro tra i formidabili interessi economici in gioco, degli Onorato e dei Grimaldi, noto a chiunque respiri anche solo occasionalmente aria salmastra, fa emergere un quadro che travalica ogni pur legittima posizione, con il rischio che la questione sfugga al controllo e colpisca in pieno l’intero settore armatoriale del Paese e i sindacati stessi.
Parliamo di ingentissimi incentivi fiscali concessi dallo Stato agli armatori per favorire l’occupazione dei nostri marittimi. Che non ci risulta incrementata significativamente, nel silenzio della triplice sindacale ormai aggredita dai sindacati autonomi di categoria.
Non è una faccenda privata, si tratta dei nostri soldi e del nostro lavoro. E’ una faccenda nostra. Vediamola allora più da vicino.
Una legge del 1998, la n. 30, cercò di porre rimedio all’uso diffuso, da parte degli armatori italiani, di bandiere estere di comodo per eludere il fisco nazionale e impiegare liberamente marittimi extracomunitari, notoriamente assai meno costosi e non sindacalizzati. Lo fece istituendo il Registro internazionale, al quale possono essere iscritte solo “le navi adibite esclusivamente a traffici commerciali internazionali”, che “non possono effettuare servizi di cabotaggio”, cioè collegamenti fra porti italiani, concedendo agli armatori crediti d’imposta e, “per la salvaguardia dell’occupazione della gente di mare”, l’esonero dal versamento dei contributi previdenziali e assistenziali dovuti per legge per il personale imbarcato sulle navi iscritte in quel Registro.
Inoltre, “…con accordo tra le organizzazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori del settore … può derogarsi a quanto disposto dall’articolo 318 del codice della navigazione”, ossia alla norma che prevede che “l’equipaggio delle navi nazionali armate nei porti della Repubblica deve essere interamente composto da cittadini italiani o di altri Paesi appartenenti all’Unione europea”.
Quindi, in cambio del fatto che tu armatore torni a battere bandiera italiana e paghi un po’ di tasse, io Stato ti offro sgravi fiscali e contributivi e ti permetto di continuare ad utilizzare extracomunitari se ti metti d’accordo con i sindacati, che dovrebbero tutelare per definizione gli interessi dei marittimi italiani.
Ma alcuni sostengono che le cose siano andate diversamente e che i sindacati abbiano, di fatto, interpretato la norma come una delega in bianco per la concessione delle deroghe.
Dopo alcuni adeguamenti della legge, che non ne modificano la ratio, e ben 6 accordi collettivi nazionali “in applicazione delle deroghe previste”, nel 2002 Confitarma, l’associazione confindustriale degli armatori, ed i sindacati di categoria di CGIL, CISL e UIL, firmano un “verbale di accordo ‘quadro’ sulle deroghe all’imbarco dei marittimi non comunitari”.
Si premette che c’è carenza di marittimi europei perché lo dice la Commissione europea (sic!); tutti gli interventi per affrontare il fenomeno sono demandati al futuro e non ci si mette un soldo; la soluzione (transitoria, per carità, infatti sono passati solo 15 anni) consiste nell’applicazione delle deroghe. Di conseguenza, si conviene che “su tutte le navi iscritte nel Registro Internazionale Italiano, in caso di irreperibilità di marittimi italiani o comunitari, si potrà procedere all’imbarco di marittimi non comunitari”. A certificare l’assenza di marittimi in banchina sono i sindacati, attraverso una procedura piuttosto snella per cui le società di armamento inviano ai sindacati una comunicazione alla quale si deve rispondere entro 48 ore, valendo comunque il principio del silenzio/assenso. Non basta. Gli armatori che si avvalgono delle deroghe devono fare un accordo con i sindacati con valore di deroga per l’intera flotta aziendale. Quando si dice sindacati gialli.
Ma con il successivo accordo del 2003, tra le stesse parti, viene addirittura previsto che, per le navi iscritte nel Registro internazionale, le aziende che ricorrono alle deroghe si obbligano a versare “direttamente alle organizzazioni sindacali” un contributo annuo per ogni marittimo imbarcato di 190 euro, in caso di equipaggio comunitario, e di 300 dollari (ma pagabili in euro, ci hanno tenuto a specificarlo) in caso di equipaggio misto.
Non è scritto quale sia la finalità del contributo e non sappiamo come venga concretamente gestito. Immaginiamo che sia destinato alla formazione dei marittimi, forse, ma l’accordo non brilla per trasparenza, soprattutto se si considera che i sindacati non presentano bilanci consolidati e non hanno l’obbligo di pubblicarli.
Ma andiamo avanti. Nel settembre 2003 di fatto cade il divieto, per le navi impegnate nel cabotaggio, di iscrizione nel Registro Internazionale, ergo, il regime delle deroghe si estende ai traghetti nazionali, purché la rotta preveda una puntata in un paese extracomunitario. Solo Grimaldi ottiene la deroga, ma non ci risulta che, fino al 2015, qualcuno abbia mai protestato. Lo ha fatto Onorato, appunto verso la fine del 2015, quando Grimaldi ha iniziato a fargli concorrenza, essenzialmente sulla Sardegna.
Non è tanto importante stabilire se sia vero che Grimaldi tenta di assicurarsi il monopolio delle autostrade del mare nel Mediterraneo facendo leva sui minori costi del personale ottenuti imbarcando extracomunitari grazie alle deroghe, o se sia vero che Onorato faccia concorrenza border line, avendo la Tirrenia ancora in pancia importanti contribuiti comunitari a fronte di obblighi di servizio per collegamenti con le isole maggiori.
Quello che conta è che si faccia chiarezza. La nascita spontanea di potenti associazioni di categoria, volute da distinti gruppi armatoriali, non rafforza il sistema Paese, ma corre il rischio di generare ulteriori fratture. Un sereno e costruttivo confronto gioverebbe a tutti i soggetti coinvolti, tenendo ben presente che, su tutto, va tutelato l’interesse dei lavoratori.
Per il momento, ci basta aver posto la questione inquadrandola sinteticamente, senza pretese di esaustività analitica e men che mai di giudizio di merito. Certo, i marittimi italiani farebbero bene a trovarsi un sindacato, perché se i loro interessi sono curati dagli armatori stanno freschi.
di Lucia Severino