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La guerra in Ucraina vista dal Canada

by Guido Mondino
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Per comprendere i sentimenti e le prime reazioni del Canada, a livello politico, dei media e dell’opinione pubblica, è necessario fare alcune premesse. Parafrasando l’Articolo 1 della Costituzione italiana, si può davvero dire che “il Canada è uno stato federale fondato sul rispetto sociale” e questo Rispetto (sì, con la R maiuscola) non è una favola utopica o un concetto astratto: è LA regola di base applicata su larga scala nelle relazioni interpersonali, nella società in senso lato e nei comportamenti internazionali. Altra considerazione fondamentale: benché il Canada sia uno stato federale e indipendente, il ruolo di garante della costituzione e del “convivere civile”, che in Italia spetta a Sergio Mattarella, in Canada è ricoperto dal Governatore della Corona. Il legame con il Regno Unito ha dunque radici tanto solide quanto profonde e, allorché si parla di “politiche internazionali”, l’allineamento con l’asse Londra-Washington è totale: da una parte per motivi storici e di affinità con il Regno Unito, dall’altra perché gli USA sono il più grande partner commerciale del Canada. Tuttavia, è bene sottolineare che culturalmente, socialmente e giuridicamente USA e Canada sono agli antipodi: qui la vendita delle armi è proibita, non esiste la pena di morte, ma un “reiterato” reato fiscale o di semplice eccesso di velocità diventano materia penale proprio perché violano la regola del rispetto sociale. Infine, occorre sottolineare che il nostro è un paese di immigrazione in cui, fra le tante e variegate etnie, vivono oltre un milione e quattrocentomila persone di origine ucraina (di prima, seconda e terza generazione), cioè circa il 4% della popolazione canadese. È la seconda più grande comunità ucraina fuori dai confini nazionali (la prima essendo quella in Russia).

Il 24 febbraio ci siamo svegliati tutti con un sentimento di confuso sgomento: da Trudeau fino all’uomo della strada, passando per i media e le università. L’invasione dell’Ucraina è percepita come un rigurgito dei nazionalismi del XX secolo che da Halifax fino a Vancouver ci si era illusi fossero chiusi in qualche forziere nel soffitto della storia. Certamente, non siamo “Utopia”, abbiamo le nostre sparute minoranze che si ispirano al dittatore in fieri a sud del confine (the Donald), come è vero che il francofono Québec ogni tanto ha qualche contraccolpo nazionalista (limitato a questioni linguistiche), ma la stragrande maggioranza dei canadesi, francofoni o anglofoni che siano, mal accettano il concetto di dittatura, di aggressività, di prevaricazione dei diritti individuali e collettivi, del sopruso territoriale ma, ancor più, trovano aberrante il nazionalismo esasperato, sia esso etnico o religioso. Ecco che torna il concetto di rispetto, quello più semplice e lineare: libertà di espressione, di opinione e di credo che però termina dove comincia quello altrui. Ciò vale per il sottoscritto con il mio vicino, come per il governo con altri stati.

Può sembrare ingenuo ma, in nome del “rispetto”, per la società canadese il “sopruso” politico è impossibile da comprendere (e immaginare): da Trump a Xi Jinping, da Putin a Kim Yong-un, da Aliyev a Bashar al-Assad si fa letteralmente fatica a inquadrare l’idea di un leader che pone e dispone a suo piacimento oppure che abbia la libertà di usare armi e morte come strumento politico. Perché è difficile da capire? Lo spiego con un esempio pratico, prendendo spunto da un fatto realmente accaduto: per suo dovere costituzionale, in Canada ogni parlamentare è obbligato a rispondere a un problema segnalato per iscritto da un cittadino della circoscrizione nella quale è stato eletto. Nella fattispecie il parlamentare in questione non rispose a tre lettere di un medesimo elettore: risultato, dopo l’intervento di un quotidiano, fu costretto a dimettersi. Se già il concetto di uomo politico lontano dalla realtà della gente è inaccettabile, figuriamoci quando si parla di autocrati!

Dopo solo poche ore dall’attacco a Kiev, molte sono le domande della “gente comune” che appaiono sui media (testate, TV, siti Internet e social). Pospongo quelle politico-militari, preferendo parlare in primis dell’aspetto che più sta a cuore al popolo canadese: che fare per aiutare i profughi e i civili che finiranno per pagare il prezzo più alto? È di poche ore fa l’offerta del governo del Québec di aprire le porte con fondi e strutture per accogliere il numero più alto possibile di ucraini in fuga (quantità da determinare prossimamente), mentre il governo del Saskatchewan ha già versato una somma di alcuni milioni di dollari alla comunità ucraina residente nelle Praterie per aiutare le famiglie lontane a trasferirsi da questa parte dell’oceano. Sicuramente, nel giro di qualche settimana altri governi Provinciali e quello Federale di Ottawa prenderanno simili iniziative ma, scrivendo queste righe poche ore dopo il lancio del primo missile, mi è impossibile confermare dati precisi.

Lo sbigottimento della sveglia si è rapidamente trasformato in altre domande ricorrenti: che rischio reale esiste per la democrazia in generale, inclusa quella canadese? Il modello sociale canadese sta tramontando? La nostra visione della libertà è sana o malata? Qual è la nostra immunità dal virus delle derive nazionaliste e populiste? A cosa servono le sanzioni contro la Russia alla fin fine?

La recente pandemia ha dimostrato a tutti quanto piccolo sia il pianeta e quindi, anche gli avvenimenti ucraini sono visti dalla gente comune con la stessa vicinanza e rapidità con cui si è diffuso il covid-19. Le preoccupazioni sulla stabilità democratica del Paese e sul possibile virus nazionalista/populista (stile Donald Trump o Putin) oggi erano tangibili soprattutto sui social media, la vox populi. Questa mattina Bob Rae, ambasciatore del Canada alle Nazioni Unite, durante un programma della CBC (Canadian Broadcasting Corporation) ha risposto a molte domande pervenute alla radio da parte degli ascoltatori. Il diplomatico non ha negato la preoccupante necessità di rivedere l’ordine internazionale dell’ONU giudicato dalla massa come “latitante e impotente”, ma soprattutto sull’urgenza di riflettere, molto e bene, su alcuni meccanismi da inserire a salvaguardia delle democrazie occidentali e per una proattiva difesa delle stesse. Nemmeno ha negato la sua stessa sorpresa, come quella che dalle più remote periferie del paese arriva fino a Parliament Hill: nessuno aveva previsto la cruda ampiezza delle intenzioni di Vladimir Putin. Insomma, il “fattore sorpresa” ha letteralmente causato, a politici e società civile, una prova reale di cieca incoscienza collettiva e di sogni bruscamente interrotti.

Come vengono recepite le possibili azioni future? il Canada, civile e pacifista per definizione, non ama la guerra e non attaccherebbe mai un altro popolo. La popolazione ritiene che le sanzioni siano insufficienti a causa delle “psicopatie” di Vladimir Putin (l’aspetto psicologico dello Zar emerge in ogni conversazione dei social). Molti sono gli accostamenti con la genesi del nazismo in Germania e nessuno fa fatica a equiparare Putin ad Adolf Hitler: lo stesso ambasciatore non ha usato mezzi termini. Nonostante l’anima pacifista, allorché vengono toccati i principi enumerati più sopra, il Paese si sente parte integrante della NATO e l’opinione pubblica non ha remore a dichiararsi favorevole a scendere sul terreno di combattimento: “bisogna fare quel che occorre fare”. In passato furono immigrati di svariate origini europee, o di religione ebraica, a domandare soccorso e il Canada partecipò alla Seconda guerra mondiale contribuendo con 45,500 vite. Oggi sono i canadesi-ucraini a soffrire, e domani potrebbero essere gli italo-canadesi o chiunque altro: i concetti di solidarietà sociale e di libertà si fondono nel cuore comune del “rispetto” dei valori di convivenza civile e democratica. Lo stesso Primo Ministro del Québec, François Legault, sovente in disaccordo con Ottawa, ha già dato il suo sostegno a Justin Trudeau su qualsiasi decisione prenderà per salvaguardare la democrazia e le alleanze. Loro malgrado, se mai ci fosse da andare in terre lontane per combattere, né il governo né la popolazione si tirerebbero indietro.