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La periferia romana: una vicenda irrisolta

by Roberto Grimaldi
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L’Autore, architetto, lavora da molti anni come progettista nelle zone periferiche di Roma.

 

Luogo” è qualcosa che evoca i rituali della memoria e delle emozioni, è la risonanza emotiva che s’innesca quando l’ambiente è regolato dalla misura e dal “katà métron”, ma se si è al margine, si è abitati dal malessere, è l’atopia dell’esclusione: questo è la periferia. Ma allora perché più della metà della popolazione mondiale vive in città – e il fenomeno è in crescita esponenziale – se la destinazione più probabile e meno attraente è la fascia suburbana? Aristotele ammonisce che chi s’illude di poter vivere al di fuori di una comunità o è bestia, o è dio; la comunità è il luogo dell’inclusione e della partecipazione, dove queste prerogative sono vissute come risorse irrinunciabili e insostituibili. È il compito dell’istinto gregario dell’uomo preordinato dalla natura per garantire la conservazione della specie: per difendersi e sopravvivere all’aggressività dell’ambiente che lo circonda, l’essere umano cerca rifugio e protezione nella comunità.

Non si può certo affermare che la metropoli contemporanea, divenuta essa stessa aggressiva, stia mutuando questo modello virtuoso; al suo interno si è ripetutamente attraversati da quel sentimento d’inquietudine e di isolamento che sta caratterizzando la quotidianità di chi la abita. Scrive Italo Calvino “nessuno saluta nessuno, gli sguardi s’incrociano per un secondo e poi sfuggono, cercando altri sguardi, non si fermano”, la progressiva dissoluzione dei rapporti umani accompagna l’anonima e squilibrata crescita urbana, a tale dinamica non si sottrae neanche la “urbs aeterna

Ma a Roma è proprio necessaria questa smisurata, disorganica e continua espansione del suo confine, dal momento che al suo interno esistono grandi estensioni non utilizzate?

Nel corso degli anni Trenta del Novecento la Capitale è stata oggetto di un programma di rilevanti demolizioni di edilizia residenziale; s’insegue una sconsiderata idea di grandiosità celebrativa del regime, vagheggiando una nuova “forma urbis”. A questo orientamento si affianca l’ambizione di collegare la città al mare mediante l’annessione di Ostia e Fiumicino: se pur lontana dal litorale, la rinnovata “imago urbis” deve esibire anche una struttura portuale che evochi fasti imperiali. Si organizza il trasferimento dei cittadini sradicati dal proprio quartiere smantellato e delle categorie più emarginate, considerate nocive all’immagine del regime, il programma da luogo alla costruzione di dodici borgate. I nuovi nuclei sono lontani, anonimi, privi di spazi per la comunità e vigilati dai vicini forti militari; si deve evitare che gli abitanti dialoghino tra di loro e prevenire ogni espressione di dissenso per la sventurata congiuntura. L’emarginazione è intimata dall’Istituzione, in borgata si consuma l’angoscia di chi, perdendo la propria identità di cittadino, si smarrisce in un ambiente programmaticamente ostile.

Nei decenni che succedono a questa iniziativa, fra il centro e il nuovo limite urbano vengono dimenticate grandi estensioni di terreno residuali, non pianificate, sovente inutilizzate e pertanto prive di valore commerciale. Con l’incremento demografico e il venire meno dell’economia rurale, in queste aree, benché prive di diritti edificatori, le categorie più indigenti sono incoraggiate a concretizzare le uniche soluzioni abitative concesse dall’esiguità del proprio misero appannaggio. Il panorama periferico romano comincia a distinguersi dal profilo delle borgate di Stato, si profila lo scenario finora inedito degli insediamenti spontanei e l’abusivismo edilizio per necessità inizia a proliferare in modo sistematico.

 

 

Come testimoniano alcuni film della corrente neorealista, nell’ambiente povero e desolato del primo dopoguerra si assiste alla genesi di piccoli nuclei per l’appunto periferici, episodi puntuali e ancora lontani dalla compagine edilizia che oggi si rileva in quelle zone. Sono costituiti perlopiù da baracche, assemblate di nascosto e in fretta, nel timore dell’insorgenza di misure repressive e di sanzioni giudiziarie; fondamentalmente sono l’unica misera risorsa di chi è privo di un ricovero. Le “abitazioni” sono disposte casualmente sul territorio, si cerca uno spazio appena sufficiente ad aggiungere un locale in vista della crescita del nucleo famigliare, è un atto di fiducia in un orizzonte migliore perché s’intravede l’opportunità di avvicinarsi al benessere forse illusoriamente rappresentato dalla vita città.

Agli esordi della ricostruzione negli anni Cinquanta s’impone una nuova immagine della periferia: è uno sfondo spoglio ma strutturato, l’edificato è ruvido ma approssimativamente programmato, si rappresenta una dinamica sociale diretta ad esorcizzare le lacerazioni inflitte dalla guerra, in vista di una nuova prospettiva di vita. È lo scenario dei grandi caseggiati su strade sterrate, dove la popolazione, attraversata dallo squallore di un ambiente freddo e poco ospitale, cerca una via di riscatto in quei codici comportamentali vivaci, intensi e passionali narrati da Pasolini.

 

 

Esiste poi la periferia degli anni Settanta, gli effetti del “miracolo economico” si riverberano anche sull’edilizia più modesta, la qualità delle costruzioni migliora significativamente e l’impianto tipologico, destinato in prevalenza al singolo nucleo familiare, sostituisce il grande condominio. L’appannato linguaggio compositivo delle villette con giardino, fatalmente prive di autorizzazione, sostituisce la figurazione misera delle baraccopoli postbelliche, mutuando timidamente l’immagine dei quartieri più abbienti. A differenza dell’autocostruzione delle baracche, per buona parte le lavorazioni sono affidate a maestranze specializzate o ad un’impresa edile e il risultato è, almeno in parte, confortevole e tecnicamente accettabile.

Questa dimensione subordina le previsioni urbanistiche all’esigenza di non avversare le classi più segnatamente disagiate e, alla fine degli anni Settanta, l’amministrazione comunale prende significativamente atto della situazione e ne promuove il riconoscimento. Purtroppo questa iniziativa ristagna ancora nell’alveo della burocrazia e l’attesa che il territorio venga innervato dai necessari servizi pubblici – ma anche semplicemente dall’impianto d’illuminazione, dalla rete idrica, da strade asfaltate – si prolunga sine die.

Attualmente è in corso un’ulteriore trasformazione del tessuto sociale residente in periferia; gli abitanti originari iniziano a trasferirsi in zone più centrali e più vicine al posto di lavoro, si abbrevia la durata degli spostamenti quotidiani a vantaggio di qualche ora in più da dedicare a se stessi. Gli immobili, non più utilizzati, entrano nel circuito delle locazioni, richiamando l’interesse di un’utenza prevalentemente straniera. I nuovi abitanti sono cittadini del mondo animati dall’aspettativa di una occupazione più remunerativa di quella del paese d’origine, questa gente non può permettersi di alloggiare in caseggiati che non siano a bassissimo canone d’affitto e di conseguenza si stabilisce in borgata.

Questa breve rassegna apre uno spazio di riflessione su quella soglia che marca la dissoluzione del diritto nell’infortunio del bisogno, impronta emergente delle realtà urbane estreme.

Bisogno è ciò che Piaget definisce “manifestazione di uno squilibrio” è il timbro di un frammento di storia del Paese, del suo mal distribuito sviluppo economico, ma anche del persistere di complesse divaricazioni sociali tuttora annidate ai margini della città.

Esiste una tradizione che prospetta un’alternativa inedita alla tirannia della rendita fondiaria, ovverosia del sistema finanziario responsabile dell’emergenza abitativa; viene da molto lontano ed è descritta in un saggio di Margaret Mead.

Siamo in Nuova Guinea, la popolazione Arapesch non ammette il principio di possesso del suolo perché non si considera proprietaria bensì proprietà della terra che la ospita, dunque ne ha grande rispetto e ne trae la propria identità; è una relazione emozionale che evoca il pensiero di Luigi Petroselli “Roma si può governare solo se la si ama

Su questa base la costruzione di un “luogo” è realizzabile anche là dove tutto è disanimato dalla rapina dell’emarginazione; anche in questi contesti chiusi in se stessi esistono isole felici dove si radicano le emozioni: un’edicola, un bar, un mercatino, sono il “genius loci”, il vissuto su cui fondare il processo di formazione e di crescita organica del luogo.