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Per una discussione sulla città

by Carmine Piscopo
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L’Autore, professore di composizione architettonica e urbana all’università Federico II, è Assessore all’urbanistica del Comune di Napoli.

La domanda di fondo, oggi, è certamente di ridisegnare il nostro mondo, e, con esso, le nostre città. Ma è una domanda che implica la necessità di immaginare un nuovo progetto di relazioni. Non possiamo parlare solo dei paesaggi o degli spazi costruiti senza comprendere come muteranno le nostre relazioni sociali e il nostro modo di abitare.

In questo senso, è molto bella l’iniziativa del Direttore di “Gente e Territorio” di promuovere un dibattito che approfondisca questo tema, oggi decisivo. Così come, la domanda posta dalla Biennale di Architettura di Venezia, “How will we live together?”, trova oggi una nuova attualità.

Questa pandemia ha reso evidenti crepe di un modello che non funziona, accelerando dinamiche agenti da tempo. Se l’uomo è in movimento, per effetto del suo stesso viaggio, lo è anche la natura, secondo una relazione che include il cambiamento. Così, un pensiero unicamente antropocentrico non ha senso.

Come cambieranno allora le nostre città? Penso innanzitutto agli spazi pubblici, intesi sempre più come vere e proprie infrastrutture disponibili a diversi usi, flessibili e collegate allo spazio dell’abitare. Grandi fasce della città che terranno insieme luoghi che hanno perso la loro funzione originaria e si aprono alla trasformazione: parchi, aree attrezzate, funzioni sportive, tempo libero e, insieme, lavoro ed educazione. Un ruolo fondamentale, che risignificherà completamente gli spazi fisici delle città, dotandoli di una nuova versatilità: un insieme di coworking e smart working, di luoghi della formazione e dell’attraversamento cittadino, superando ogni specializzazione funzionale.

Penso al ruolo del collettivo. Abbiamo assistito in questo periodo di lockdown a una contraddizione fortissima: grande solitudine e, contemporaneamente, iper-connessione. Allo svuotamento di luoghi per definizione collettivi, si è accompagnata la costruzione di strumenti di discussione sul ripensamento delle nostre città e sulle sue risorse, soprattutto in base ai diritti. La sfera “del comune” sta acquisendo sempre più forza nell’elaborazione delle strategie e da questo anche le Istituzioni non potranno prescindere.

Altra questione è quella legata al concetto di diritto alla cura. Distanze sociali e barriere rappresentano un modo insufficiente di guardare alla trasformazione delle nostre città. Diverso, sarà immaginare nuove forme di infrastrutture urbane e avere un rapporto nuovo con le città, trasformando i luoghi del tempo libero, del passeggio, della relazione con la natura, nei luoghi della cura. Non si può pensare di attuare il diritto alla salute generando un sistema di divieti.

Ma soprattutto, e credo sia questo un punto importante, abbiamo assistito alla rottura del legame di interdipendenza tra la produzione e gli spazi urbani, vale a dire la relazione tra spazio e società di cui si è occupato a lungo Lefebvre. Il modello economico neoliberista, in questa emergenza, ha mostrato la sua crisi. Ha mostrato di non essere in grado di mantenere le promesse fatte. Eppure, oggi tenta di ristabilire il suo ordine. Ma non è semplice. Oggi, con grande chiarezza, vediamo anche un modello del Sud che si fa avanti, basato sulla socialità, sui beni comuni, sulle esperienze di democrazia partecipativa, su una mediterraneità fatta di solidarietà, sull’economia circolare, e potremmo continuare a lungo.

Cito, in questo senso, quanto già affermava Jean Baudrillard. Il modello americano rimarrà in piedi finché sarà in grado di mettersi in scena sulla cifra di una iperrealtà, di un’utopia vissuta come già realizzata. Ma basterà un attimo di crisi, per spingere la collettività a cercare modelli relazionali completamente diversi. E questo inciderà sul ridisegno delle nostre città.

Altra questione, ancora, è la paura. Ne aveva già parlato Paul Virilio, di recente scomparso, nel suo “Città panico”. Nel prossimo futuro, si confronteranno da un lato le istanze legate alle torsioni autoritarie, in nome della sicurezza, dall’altro quelle di dare spazio ai diritti, proponendo un modello di città profondamente diverso.

Come Amministrazione comunale di Napoli, avevamo colto la necessità di avviare questo approccio differente alla città. Lo abbiamo fatto nel nostro Piano Urbanistico Comunale (Città, Ambiente, Diritti e Beni Comuni. Napoli 2019-2030), dove abbiamo introdotto la sfera dei rischi e la transizione ecologica alla base della progettazione, o nel caso del recente Protocollo sottoscritto con la Regione Campania (Piano dell’edilizia residenziale pubblica), dove si apre la possibilità di un ripensamento dello spazio collettivo al servizio delle case, come un loro prolungamento e un loro ridisegno, e dove trovano spazio i servizi urbani integrati come un fascio di funzioni interagenti.

Ma, più in generale (e anche qui, posso fare riferimento ad alcune esperienze della nostra Amministrazione in materia di beni comuni), vanno oggi ripensati i meccanismi che definiscono l’accesso alle risorse che regolano la vita delle città, e con essi, i modelli che abbiamo costruito. È qui, che si apre la questione fondamentale della redistribuzione delle risorse, giacché da ciò discende anche il disegno della città, i suoi paesaggi costruiti, i modi di abitare del prossimo futuro.

Oggi siamo di fronte alla definizione di un’altra immagine della Modernità e assisteremo al confronto tra chi vorrà ridisegnare la città avendo a riferimento le esperienze del passato e chi, invece, vorrà guardare a una città completamente nuova, ripensata in base alle dinamiche agenti che vanno identificate, estratte e portate a un grado diverso di conoscenza. Già in passato le nostre città sono state trasformate in periodi di emergenza sanitaria. Penso al Risanamento di fine ‘800 o alle trasformazioni degli anni ’20 e ’30 del secolo scorso, quando sorsero interi quartieri di nuova costruzione. Ma sappiamo che non possiamo guardare a quei modelli, giacché la sfida che abbiamo di fronte, con il suo carico di complessità e di contraddizioni spesso irriducibili, è del tutto nuova.

Così come non possiamo pensare di rinnegare le città, con i propri agglomerati urbani, proponendo fughe da esse o lavorando su coppie oppositive (città/campagna; metropoli/città medie; globale/locale), o pensare banalmente di annullare i livelli di interconnessione  dentro cui viviamo, prendendo a prestito la velocità di propagazione di un virus dalla Cina a Miami in pochi giorni. Viviamo tutti dentro una complessità che è fatta di collegamenti, di agglomerati urbani, di eterogeneità e dispersione non relazionata. È sulle nuove dinamiche agenti, sui continui allarmi lanciati dalle organizzazioni mondiali sull’uso delle risorse (basti, per tutti, l’ultimo allarme lanciato nel 2019 in tema di produzioni agroindustriali), sui modelli che abbiamo alle spalle, che dovremo lavorare, aprendo finalmente gli occhi su quei milioni di dati, che attraversano il nostro pianeta e che per troppo tempo abbiamo escluso dal panorama delle nostre conoscenze, quasi come se fossero icone diagrammatiche e non dati di un pianeta in movimento (i cui effetti riguardano esattamente il medesimo viaggio di tutte le specie viventi). Al contrario, come hanno evidenziato generazioni di Atlanti che hanno “sovvertito” le mappe del nostro pianeta, questi dati sono “quantità” di cui, anche, sono fatte le nostre città.

Le nostre città cambieranno, giacché, ancor prima, stanno cambiando nella testa delle persone. Nelle loro impressioni, bisogni, desideri, con la rapidità della fine dei grandi racconti. Tutto ciò traccia un’urgenza dalla quale non possiamo prescindere, pena dover parlare ancora di una “città” e di un’“anticittà”. Ma l’“anticittà” è figlia della città, è esattamente parte del suo processo, come un fenomeno agente nella sua pancia che diventa il dato di una proiezione in avanti, di un progetto ancora possibile.