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Armenia-Azerbaijan: il rischio che la storia si ripeta

by Guido Mondino
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Egregio Direttore, spiace e sorprende un po’ che parlando a Tizio risponda Caio. Tuttavia, vorrei ribattere alle dotte argomentazioni del professor Daniel Pommier Vincelli (https://www.genteeterritorio.it/armenia-azerbaig…a-una-parte-sola/).

Diversamente da altri, io non posso demandare risposte a noti studiosi: il disclaimer del professore concernente la mia precedente lettera aperta, suona molto come una excusatio non petita. Già il fatto che il professore parli di una futura ed eventuale “difesa” da parte della senatrice Papatheu, mette la questione in un’ottica errata. Non vi è bisogno di nessuna difesa perché non c’è alcun attacco, ma solo una mia implicita richiesta alla senatrice Papatheu di correggere parole che, fors’anche in buona fede, la nostra parlamentare ha pronunciato sulla base di informazioni che io ritengo distorte.

Ringrazio sentitamente il professore il quale, con il suo interessante scritto, mi offre un ulteriore arricchimento personale. Nella vita c’è sempre da scoprire e, pur avendo passato i settanta, ho la fortuna di poter dire che ogni giorno imparo nuove cose.

Tuttavia, se è vero che la storia non si guarda da una parte sola, vi sono anche due altre verità:

  • La storia spesso si ripete. Quante volte abbiamo dovuto constatarlo? Per esempio: possiamo dire, mutatis mutandis, che l’antisemitismo è morto e sepolto? Basta guardare alle cronache della tranquilla Québec City del 29 gennaio 2017, oppure di Livorno del 25 gennaio 2022 (pochi giorni fa!), per capire che non è così. Sono solo due episodi, ma tutti sappiamo che se ne potrebbero elencare a migliaia. Primo Levi ha scritto: «Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario, perché ciò che è accaduto può ritornare, le coscienze possono nuovamente essere sedotte ed oscurate: anche le nostre.»
  • La storia la scrivono i vincitori, i quali non sempre sono i migliori o coloro che stanno dalla parte della ragione oppure che sono l’incarnazione del bene. Anzi, a me pare che sovente i vincitori siano i più prepotenti, i più accaniti, o i meglio armati, mentre ai sopraffatti non resta che comprare il libro di “storia” redatto altrove.

È il caso degli Armeni, che da oltre cento anni – dunque tuttora – sono oggetto di vessazioni da parte di popoli con arsenali e truppe soverchianti. E poiché il professore, in relazione all’attuale questione del Nagorno-Karabakh, dice di non capire il motivo della mia disquisizione su “eventi così lontani nel tempo” (genocidio armeno), lo spiego in poche parole: «Se il mio vicino del lato Ovest entra nel mio terreno, si prende tutto il giardino, l’orto e oltre metà della mia dimora, e poi – più avanti nel tempo – il vicino che sta al confine Est comincia a dire che l’angolo della casa con l’appartamento in cui vive mio figlio, seppur autonomo, gli appartiene… beh, avrò motivo di essere preoccupato che la storia possa ripetersi?»

Nella fattispecie l’appartamento è la zona del Nagorno-Karabakh occupata dalle truppe dell’Azerbaijan ove è morto il soldato a cui faceva accenno la senatrice.

La questione del Nagorno-Karabakh, in chiave attuale e futura, è figlia diretta di quello che successe agli Armeni prima, durante e dopo la Prima guerra mondiale. Comprendo perfettamente che chi fa parte di un gruppo interparlamentare di amicizia con l’Azerbaigian, o che sia stato (o forse ancora è) “Visiting professor at the Baku State University” abbia una simpatia più pronunciata per una delle parti. È normale. Ma chi è in grado di garantire che il duo Turchia-Azerbaijan recederà dai propositi di annientamento dell’Armenia? Se la questione è fallace o meno lo deciderà ancora una volta il futuro, quando sarà stato consegnato alla storia. Ma, magari, a quel punto sarà troppo tardi. E se succederà… coloro i quali, direttamente o indirettamente, scientemente o inconsapevolmente, avranno in qualche modo contribuito a legittimarne le premesse, cosa diranno ad altri milioni di profughi? Il rischio che la storia si ripeta, per l’Armenia, esiste.

Lo avevo scritto e il professore lo conferma: la storia del Caucaso è antica, complessa, articolata in un mare di intrecci, un vero vespaio di cui è oltremodo difficile disquisire. Evidentemente, in questo caso, i titoli accademici per farlo li ha soltanto il professor Pommier Vincelli. Eppure, è proprio nelle sue parole che si trovano i mattoni di questo muro:

  • I confini determinati dall’URSS nelle zone dell’ex impero sovietico non differiscono, in termini di cieca arbitrarietà, da quella usata dalle potenze vincitrici della Prima guerra mondiale per ridurre l’Armenia a un minuscolo territorio, così come per tracciare “insensati” confini in Medio Oriente senza presupposti storici, politici o etnici.
  • Popoli di diverse etnie, lingue e religioni, hanno convissuto bene per secoli (anche nel Nagorno-Karabakh come attesta il professore stesso), in Anatolia come in Palestina, in Mesopotamia come nel Dakota, in Cina come nel Sud della penisola arabica e altrove, finché forze esterne e “conquistatrici” si sono inserite per tracciare confini, separare, rinchiudere, organizzare e creare il divide et impera. È lo “Stato-etnico-religioso”, deciso in sede politica, che porta morte e dolore.
  • Nel suo libro intitolato “Storia internazionale dell’Azerbaijan” (edizioni Carocci), il professor Pommier Vincelli illustra come l’Azerbaijan abbia proclamato la propria repubblica democratica nel 1918. Perfetto, giustissimo. Per contro, non si capisce perché allora egli affermi che l’auto-proclamazione dell’Artsakh del 1982 sia frutto di “atti illegali e contrari al diritto internazionale” (parole esatte del professore). Ritengo che l’autodeterminazione dei popoli sia un diritto sacrosanto; parafrasando George Orwell: “forse tutti i popoli sono uguali, salvo alcuni che sono più uguali degli altri”?
  • Le risoluzioni ONU a cui il professore si riferisce (Nr. 822, 853, 874 e 884 del 1993, alle quali rinvio) sono una bella raccolta di “politichese”: tutti conosciamo il peso dell’URSS in seno al Consiglio ONU e, quindi, che il riconoscimento dell’Artsakh non sia avvenuto per motivi di convenienza politica di Mosca non deve meravigliare. Discutiamone pure, ma è una verità risaputa.
  • Affermare che gli Armeni abbiano “subito sofferenze” mi pare talmente riduttivo da causare in me sincero stupore e sgomento.
  • Nessuno discute, e tantomeno io, di genocidi perpetrati da una parte sola. Quello dei Circassi (1867) è altrettanto orrendo. Non esistono genocidi di prima o di seconda classe. Esistono solo crimini chiamati “genocidio”: da chiunque siano eseguiti e in nome di qualunque fede religiosa.
  • Dismettere gli intenti distruttivi turchi come “argomentazione vecchia” mi ricorda mia figlia di 18 mesi la quale, mettendosi le mani davanti agli occhi, pensava di sparire rendendosi invisibile. Le intenzioni dei due paesi che circondano l’Armenia sono note: inutile serrare le palpebre.

Tornando alla questione Nagorno-Karabakh: il voler determinare a tavolino (in questo caso Stalin) quale territorio appartiene a quale etnia, e viceversa, è argomento fallace di per sé. Mi riferisco ai paragrafi 1 e 2 del documento del professore e al mio punto (ii) qui sopra. Genti di diverse etnie e lingue convivono perché “si accettano” vicendevolmente più di quanto le separino “artefatte frontiere disegnate a tavolino”.

È tristemente inevitabile che allorché si soffia sull’odio etnico, fomentando condanne delle culture altrui, poi ci siano risentimenti, scaramucce, provocazioni, attacchi, guerre e massacri (anche dalla parte vessata). Il “Parco dei Trofei” di Baku è un luccicante esempio di tale spinta “armenofoba”. Lo stesso episodio citato dal professore (il massacro di Khojali, 1992) presenta diversi lati oscuri che si prestano a facili strumentalizzazioni politiche. Di quei fatti esistono due distinte versioni, agli antipodi una dall’altra. È proprio vero che la storia non guarda da una parte sola…

Purtroppo, là ove non c’è vera democrazia, ma bensì dinastie e dittature (più o meno mascherate), la distorsione dei fatti viene politicamente creata a monte per poi poter accusare la parte avversa. L’attuale crisi Crimea/Ucraina ne è fulgido esempio. Di fatti simili la storia è piena, anche in Nord America, con l’annientamento degli Amerindiani da parte di Stati Uniti e Canada. Non discuto gli argomenti portati al tavolo dal professore in taluni dei suoi paragrafi. Ed è tanto scontato quanto inutile allargare il campo a discorsi etico-filosofici su quanto orribile sia il concetto di conquista di terre altrui, di guerra, sopraffazione e distruzioni, o di pulizie etniche che soltanto “l’animale uomo” perpetra nei confronti della sua stessa specie. Non esiste altro fenomeno simile in Natura.

Mi pare, tuttavia, che la vicenda sia uscita dal seminato iniziale, visto che il casus belli è nato dalle due parole “provocazioni armene” usate dalla senatrice Papatheu che, a mio parere, non trovano alcuna giustificazione. Parole che rischiano di contribuire ad esaltare le mire azere e contemporaneamente ad affossare l’antica popolazione armena, vessata senza requie, verso la quale noi Europei e USA abbiamo un debito storico incommensurabile. La cosa meno accettabile è che tali parole recano un’informazione distorta a cittadini ed elettori. Quando parole di persone di alto profilo istituzionale di un paese democratico rischiano di legittimare, davanti all’opinione pubblica, azioni di un paese terzo solo apparentemente democratico, magari perché ricco di risorse a cui tutti attingiamo, beh… allora, in tutta coscienza, personalmente tali parole risuonano sinistre e tristemente inaccettabili. Non oso pensare a motivazioni opportunistiche: preferisco credere a un errore di valutazione.

Vorrei terminare con due annotazioni:

  • Non ho detto che gli Armeni fossero l’unico popolo cristiano dell’Anatolia. Ho detto che furono il “primo” popolo cristiano (cosa che nessuna università può smentire) e ho scritto che mai fecero alcuna guerra di “sopruso per la conquista di territori”. Non presero le armi fino a quando non vi furono costretti “per difesa”. Come attualmente in Artsakh (a larga maggioranza armena, seppur non riconosciuto dalle UN come spiegato più sopra). È tanto facile quanto ingiusto accusare di atti ostili chi ha subito soprusi nel momento in cui la vittima reagisce…
  • Nemmeno ho scritto che il trattato di Sèvres fosse buono e quello di Losanna malvagio. Ma i fatti sono fatti e le promesse sono debiti. Allorché si vanifica una promessa si getta al vento l’unico attivo del nostro bilancio personale che solo noi come individui possiamo alienare: la nostra parola. Peggio ancora se la promessa la si fa stando seduti su scranni politici, poiché con le parole si possono creare i presupposti per altre guerre e ulteriori carneficine.

La lista è assai lunga, ma citerò solo tre esempi:

  • il primo trattato di Fort Laramie (1851), ripetutamente violato dagli USA con progressivi tagli di territori già dati, ulteriori confinamenti in riserve e crescenti massacri dei Sioux;
  • le promesse fatte a re Faisal I, che furono in seguito dismesse senza ritegno, aggravando il tutto con il tirare righe inesistenti nel deserto arabo, in tal modo creando i presupposti di quel che viviamo con il Medio Oriente da oltre sei decenni;
  • infine, le già menzionate promesse di Sèvres ad Armeni e Kurdi, gli uni confinati in un territorio minuscolo, gli altri abbandonati al loro destino.

Le tragedie di allora, come quelle di oggi – nessuna esclusa – le portiamo tutti sulle nostre coscienze. A volte, quando si è in alto nella scala socio-politica, e magari anche accademica, forse non ci si rende conto che pronunciare certe parole, o usarle male e/o a sproposito, oppure utilizzarle in supporto di chi ha intenti bellici o xenofobi, può contribuire a creare danni incalcolabili per altre genti lontane.

Ecco qui il punto: come semplice cittadino, senza interessi in Armenia né in Azerbaijan e nemmeno con persone di quei Paesi, auspicherei una pubblica correzione della dichiarazione da parte della senatrice Papatheu e, in secondo luogo, penso che nessun rappresentante politico italiano dovrebbe prendere posizioni ufficiali e dannose nei confronti di una situazione che ha portato, e tuttora porta, immense tragedie al popolo armeno.