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Da Garibaldi a Ferdinando Russo attraverso l’assedio di Gaeta

by Federico L. I. Federico
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Nel prossimo mese di febbraio, cadrà il centosessantesimo anniversario della caduta del Regno delle Due Sicilie che vide consumarsi nella fortezza di Gaeta l’agonia del Regno più antico d’Europa, fondato dai Normanni quasi otto secoli prima.

Il piemontese generale Cialdini – che sarà poi il massacratore dei meridionali filoborbonici e delle insorgenze meridionali antisavoiarde – aveva infatti condotto l’assedio con incessanti cannoneggiamenti di cannoni rigati di lunga gittata, al di fuori della portata dei cannoni napoletani, dilaniando Gaeta e riducendo i suoi quartieri contigui alla roccaforte in un ammasso di macerie.

A Re Francesco II, detto anche Franceschiello con bonaria indulgenza, condita da un pizzico di ironia, dal popolino napoletano e alla sua consorte regina Maria Sofia di Baviera fu concesso di uscire dalla fortezza e salpare su una nave da guerra francese, verso la fine dell’assedio dei cento giorni.

Era il 13 Febbraio del 1861. Poco dopo la bandiera tricolore sventolava sui bastioni di Gaeta.

E da quel giorno a Gaeta si poterono contare i caduti dall’una e dall’altra parte: circa un migliaio tra i Napoletani, solo una cinquantina tra i Piemontesi.

Praticamente un tiro al bersaglio unilaterale.

Il grande Poeta napoletano Ferdinando Russo nel 1919 pubblicò una poesia dal titolo: “‘O surdato ‘e Gaeta”, commemorando la disfatta dei Borbone, le spietatezze dei vincitori e la sorte miserabile riservata ai vinti.

E così, tra un mese circa, mentre da una parte partiranno i peana della epopea risorgimentale, sempre più moderati, dall’altra si alzeranno le voci contrarie, in verità sempre più numerose, che prima erano liquidate e classificate con sufficienza come neo borboniche genericamente.

Intanto il mito di Garibaldi, di cui si sono nutrite intere generazioni di studenti oggi con i capelli bianchi, è andato letteralmente in frantumi.

Eppure, Garibaldi aveva perso già a Teano le speranze per il proprio futuro e per quello dei garibaldini. Fu quando Vittorio Emanuele II di Savoia, incontrandolo, non ritenne di fermarsi nemmeno a complimentarsi con lui, che intanto gli stava porgendo su un piatto d’argento il regno duo siciliano, sia pure conquistato con il determinate consenso dell’Inghilterra.

Fu allora forse che capì di essere stato oggetto e non soggetto della nascente unità d’Italia.

Ormai tagliato fuori dalla ribalta “politica” del nascente nuovo Regno insieme ai propri volontari garibaldini, il Nizzardo era venuto anche in rotta con il suo amico ideologo Giuseppe Mazzini, che aveva immaginato una conclusione “repubblicana” della impresa dei Mille e gli rinfacciava il fatto che il Re di Sardegna Vittorio Emanuele II avesse scelto di non cambiare il proprio nome, a sottolineare che la Dinastia dei Savoia rappresentava qualcosa in più del Regno d’Italia appena conquistato.

Chiusasi quindi amaramente per i due la epopea risorgimentale, si aprì quella dei Governi del nuovo Regno d’Italia, diretti dai Presidenti del Consiglio successori del Conte Camillo Benso di Cavour, morto poco dopo l’Unità d’Italia da Primo Ministro in carica, dopo avere presieduto anche i precedenti tre governi Sardo-Piemontesi dei Savoia.

L’Italia di oggi si porta ancora dietro i fantasmi di questi avvenimenti risalenti a un passato grondante sangue e tradimenti.