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Il pendolo della ricchezza e della povertà nella storia

by Pietro Spirito
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La diseguaglianza è una delle radici originarie fondamentali che hanno caratterizzato la storia dell’umanità, nella evoluzione sociale, politica ed economica. Lo racconta Pierluigi Ciocca nel suo libro “Ricchi poveri. Storia della diseguaglianza”, Einaudi, 2021.

Reddito e patrimonio costituiscono i due parametri con i quali si misura la differenza nella distribuzione della ricchezza. Secondo una stima effettuata nel 2019 da Credit Suisse, il patrimonio delle famiglie nel mondo è stimato pari a 361 trilioni di dollari: nella media per ciascun individuo si arriva a 70.800 dollari.

Tra i diversi continenti del mondo si va dal minimo di 6.500 dollari in Africa al massimo di 417.700 dollari in Nord America. A livello nazionale il massimo si raggiunge in Svizzera con 565.000 dollari, mentre in Italia tale valore è pari a 234.000 dollari, sostanzialmente la metà della Svizzera.

A livello mondiale la metà degli adulti deteneva non più dell’1% del patrimonio complessivo, mentre all’1% più ricco apparteneva il 45% del patrimonio complessivo. 56.000 individui possedevano un patrimonio pari almeno a 100 milioni di dollari e poco meno di 5.000 un patrimonio superiore a mezzo miliardo di dollari.

La rivista Forbes stima che i miliardari al mondo siano circa 2.000, e che a loro facciano capo 8 trilioni di patrimonio (4 miliardi in media). Il patrimonio delle cento persone più ricche al mondo è compreso tra 113 e 13 miliardi di dollari.

Con il capitalismo la diseguaglianza conosce una impennata quantitativa drastica e radicale. Nell’economia di mercato non si produce più per l’autoconsumo o per un generico guadagno, ma per il profitto, da parte di imprese razionalmente orientate a contenere i costi ed a vendere le merci prodotte a prezzi il più possibile eccedenti i costi stessi, per generare un profitto capace di assicurare la remunerazione del capitalista e di ripagare gli oneri finanziari degli investimenti necessari per il posizionamento dell’impresa.

Alla diseguaglianza economica corrisponde però un aumento di molti indicatori del benessere, innanzitutto della speranza di vita alla nascita, che è passata da poco più di 25 anni nel 1820 a 40 nel 1920, 70 nel 2000, 72 nel 2020.

La diseguaglianza dei redditi va distinta in quella tra i Paesi (between countries) e quella interna ai Paesi (within countries). Nel 1820 la diseguaglianza interna determinava l’88% della diseguaglianza mondiale complessiva, mentre quella tra Paesi spiegava il restante 12%. Nel 1992 le proporzioni risultavano rovesciate: 40% e 60% rispettivamente.

Nell’ultimo trentennio lo scenario è stato modificato radicalmente dalla crescita economica di due Paesi ad elevata popolazione. Cina ed India, dove vivono quasi tre miliardi di persone (oltre un terzo della popolazione mondiale), hanno accresciuto la propria quota sul Pil mondiale, dall’8% dei primi anni Settanta del Novecento al 20% del 2003 al 25% del 2020.

La diseguaglianza tra Paesi è andata diminuendo, ma i divari in termini di reddito pro-capite restano molto elevati. Secondo il Fondo Monetario Internazionale nel 2018 rispetto al livello degli Stati Uniti, il reddito pro capite era dell’ordine dell’80% in Canada, 70% nell’Eurozona, Regno Unito e Giappone, 46% in Russia, 30% in Cina, 11% in India, 3% in America Latina, 2% in Medio Oriente ed Asia Centrale, al di sotto dell’1% nell’Africa Subsahariana.

All’interno dei Paesi si sono approfondire le differenze tra le diverse figure professionali: in pochi anni la remunerazione degli amministratori delegati negli Stati Uniti è salita da 20:1 rispetto al dipendente con il salario più basso a 354:1.

Dal 1980 al 2018, su scala globale, tutte le classi di reddito hanno visto crescere il loro potere d’acquisto, seppure in modo molto differente: tra il 60% ed il 120% la metà meno abbiente degli abitanti del pianeta; non più del 40% i quattro decimi della popolazione con redditi intermedi; tra il 40% e l’80% per il 9% con reddito superiore ai livelli intermedi; infine, tra l’80% ed il 240% l’estrema minoranza (1% del totale) per i redditi più alti.

Sono state dunque le classi di mezzo, la borghesia dei colletti bianchi e delle professioni, a pagare il prezzo più alto di una ristrutturazione dell’economia basata sulla globalizzazione.