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La cura del Pianeta Terra

by Alessandro Bianchi
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Due anni di una devastante pandemia e due mesi di una tragica guerra hanno oscurato un tema altrettanto grave per l’intera umanità, quello delle condizioni in cui versa l’ecosistema naturale.

Lo ha riportato all’attenzione la “Giornata della Terra”, che Il 22 aprile scorso ha celebrato il 52° anniversario dalla sua istituzione, ormai assurta a simbolo dell’affermarsi di un’attenzione nei confronti dell’ambiente che andava manifestando effetti dirompenti per l’intero pianeta.

Non è di poco conto il fatto che questa attenzione sia emersa solo cinquanta anni fa, dopo che nei precedenti duecento anni circa – vale a dire dall’affermarsi della rivoluzione tecnologico-industriale della seconda metà del Settecento – l’umanità aveva usato l’ambiente naturale in modo indiscriminato, senza avere la minima attenzione per gli effetti degenerativi che andava causando.

Alcune delle conseguenze di questo comportamento – che, non va dimenticato, va attribuito quasi esclusivamente al mondo occidentale – si erano appalesate come d’improvviso sul finire degli anni ’60 del Novecento.

 

Il 18 marzo del 1967 il naufragio della petroliera Torrey Canion nel Canale della Manica causò lo sversamento di oltre centomila tonnellate di petrolio lungo 180 Km di coste sui versanti inglese e francese, causando danni enormi all’ambiente marino e costiero. E’ stato uno degli episodi più eclatanti tra quelli che hanno fatto nascere la consapevolezza di dover intervenire per riequilibrare il rapporto uomo-ambiente.

 

 

 

A distanza di pochi anni, nel 1972, apparve uno studio del MIT promosso dal Club di Roma – “I limiti dello sviluppo” – che dimostrava su basi scientifiche che superato un certo limite nell’uso delle risorse naturali, la loro riproducibilità non sarebbe stata più possibile e avvertiva che questo trend era in atto.

 

 

 

Poi la consapevolezza prese piede in modo diffuso anche a livello degli Stati, cosicché si avviarono delle periodiche assise internazionali di cui la più nota è certamente quella tenuta nel 1987 dal WCED-Commissione Mondiale sull’Ambiente e lo Sviluppo, da cui scaturì il “Rapporto Bruntland” con la definizione, ormai universalmente accettata, di sviluppo sostenibile: uno sviluppo che soddisfi i bisogni del presente senza compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare i propri”.

Seguirono, con alterne fortune, le cosiddette COP- Conferenze delle Parti: Rio de Janeiro (1992), Kyoto (1997), Johannesburg (2002), Copenaghen (2009), Cancun (2010), fino la storica COP 21 tenuta a Parigi nel 2015, focalizzata sui cambiamenti climatici considerati come una “minaccia urgente e potenzialmente irreversibile per le società umane e per il pianeta”, da cui scaturì un accordo per contenere l’aumento della temperatura media globale al di sotto dei 2,0 gradi centigradi rispetto all’epoca preindustriale.

Un accordo che ha vissuto vicende controverse, dalla sottoscrizione da parte di 175 Paesi all’uscita degli Stati Uniti durante la presidenza Trump, fino all’ultimo atto della COP-26 tenuta a Glasgow nel 2021 la cui dichiarazione finale ha suscitato molte riserve a causa delle modifiche imposte all’ultimo momento da India e Cina sulla questione degli impianti a carbone, declassata da “phase out” (eliminazione) a “phase down” (riduzione).

 

Tuttavia, come ho già ricordato in un commento su queste pagine, sarebbe sbagliato esprimere una valutazione seccamente negativa sugli esiti della COP-26 perché la direzione intrapresa sembra essere quella giusta e occorre perseguirla con determinazione dando seguito all’appello lanciato lo scorso anno da 13.000 scienziati di tutto il mondo: “quello che dobbiamo fare ora è unirci come una comunità globale con un senso condiviso di urgenza, cooperazione ed equità” (World Scientist warning of a climate emergency 2021).

 

Riusciremo a farlo? La vicenda della pandemia e, ancora più, lo stravolgimento degli equilibri mondiali causato dalla guerra in Ucraina non vanno certamente in questa direzione, ma a maggior ragione dobbiamo essere consapevoli che l’ecosistema naturale continuerà la sua inesorabile marcia verso il deterioramento.

Allora non possiamo dimenticare che i cambiamenti climatici sono in atto, che nell’Artico è in corso il progressivo sfaldamento dei ghiacciai; che nell’Africa sub-sahariana la desertificazione avanza a passi da gigante; che nel bel mezzo dell’Oceano Pacifico vi è il “Pacific Trash Vortex”, un’isola composta dai rifiuti di plastica sversati in mare negli ultimi quaranta anni, che è grande quanto tutto il mare Mediterraneo.

Dunque, anche se alle prese con una virulenta coda della pandemia e con la tragedia di una guerra che rischia di diventare mondiale, non possiamo fare a meno di continuare ad occuparci di queste catastrofiche mutazioni dell’ecosistema naturale perché ne va della sopravvivenza del pianeta, proprio come avverrebbe per una catastrofe nucleare.